Autonomie differenziate: è l’ora delle responsabilità
Le Regioni meridionali chiamate ad esibire carte e conti in regola per recuperare credibilità nel contesto nazionale
Le cosiddette autonomie differenziate rivendicate dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna non cascano dal cielo.
Ripropongono tematiche già dibattute e poi codificate negli articolati della Costituzione del 48 e della successiva riforma del 2001. In entrambe le versioni i principi ispiratori riguardano le capacità di autogoverno delle autonomie locali.
Le esperienze vissute nelle singole Regioni, attuate nel 1970, ne hanno marcato forti differenze in termini di qualità di programmazione ed uso delle risorse pubbliche a supporto dello sviluppo economico, assetto ambientale e della crescita sociale dei rispettivi territori.
Il consuntivo non è esaltante nelle Regioni meridionali, nelle quali all’originario divario negativo con le realtà del centro-nord si è aggiunto un approccio incongruente del ceto politico locale rispetto alle responsabilità di governare le autonomie. Evidenziarne le carenze non ha nulla a che fare con il cosiddetto “razzismo territoriale”; si tratta di onestà intellettuale a fronte di una rinnovata ed artificiosa contrapposizione nord/sud in cui si prefigurerebbero secessioni di Regioni ricche a scapito di quelle povere.
L’argomento è nell’agenda del Governo per dare seguito alle intese intercorse tra le citate Regioni ed il precedente Governo Gentiloni. Il nodo da sciogliere riguarda la richiesta del Veneto di trattenere, entro cinque anni, il 90% del residuo fiscale. Il che consentirebbe una sperequazione di risorse disponibili, in ciascuna Regione, a sostegno di uguali bisogni la cui soddisfazione è garantita dalla Costituzione in uguale misura a tutti i cittadini della Repubblica.
La questione non è di poco conto e non merita di essere affrontata secondo gli umori del momento, a dispetto o a favore. Nella storia della Repubblica non è una novità questo genere di diatribe e di valzer posti in essere da medesime forze politiche passate, a secondo del momento, dal centralismo all’autonomismo e viceversa: le sinistre contrarie alle Regioni in sede di elaborazione della Costituzione ne hanno rivendicato l’attuazione contestando i Governi dominati dalla DC che, nonostante la sua dottrina autonomistica, ne aveva ritardato la nascita per oltre 20 anni.
Il successivo capitolo è la riforma del titolo V della Costituzione concepita nel 2001 per disarmare gli argomenti agitati in chiave federalista dalla Lega Nord (con l’intento di sottrarle consensi).
In quel clima in cui la Lega era considerata una costola della sinistra è scomparsa dall’articolo 119 della Costituzione la riserva da parte dello Stato di “contributi speciali” per valorizzare “particolarmente il Mezzogiorno e le Isole”; è stata sostituita dalla più generica formulazione: “in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”.
La cancellazione della particolarità delle aree da “valorizzare” non ha suscitato tanto clamore e richiami alla solidarietà nazionale. Si è aperta viceversa la stagione delle contestazioni Stato/Regioni e delle contrattazioni con successi e contenziosi, a seconda dell’omogeneità dei colori politici tra governanti nazionali e regionali.
Le autonomie differenziate dovrebbero servire a riordinare il titolo V e riscrivere le competenze delle Regioni. Nel dibattito pubblico sembra prevalere l’idea di un torneo tra nordisti e sudisti alla conquista di risorse o di consensi da parte di leghisti e pentastellati nelle rispettive aree di elezione.
La loro configurazione, viceversa, richiama una necessità di assunzione di responsabilità da parte di tutto il ceto politico, senza distinzione di colori, sia nazionale che locale. Uno sforzo in più è richiesto, al di là delle appartenenze, agli eletti nelle Regioni meridionali chiamati al tavolo delle trattative ad esibire carte e conti in regola per recuperare credibilità nel contesto nazionale.