“Demenziali” è la definizione data dal Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ai provvedimenti del Governo Renzi sulla “Buona Scuola” e sulla “Riforma della Pubblica Amministrazione” da lui ritenute alcune delle cause della sconfitta del “Si” al referendum. Per chiunque e non solo per i giornalisti in cerca di spunti polemici l’uso del citato aggettivo risponde ad una qualificazione negativa.
Non per lui che si è affrettato a precisare che nelle sue parole pronunziate venerdì scorso dagli schermi di Liratv non c’era alcuno intento critico nei confronti di Renzi ed ha aggiunto che sarebbe “da irresponsabili il tiro al bersaglio su Matteo”. Certo, l’autenticità del suo pensiero non può che avere come fonte lui stesso. Ma è anche vero che l’eventuale equivoca o tendenziosa interpretazione sta nelle sue parole che non sempre corrispondono al significato loro accreditato dal vocabolario ufficiale della lingua italiana.
“Demenziale” fino ad ora è universalmente riferito ad azione o persona carente di capacità o facoltà intellettive. Perciò, si capisce il senso della rettifica postuma per non apparire sgarbato con Matteo Renzi, ma non ha senso la contestazione dei giornalisti accusati di volere travisare ad ogni piè sospinto il De Luca pensiero. Non è la prima volta che i media sono costretti a registrare cambi e rettifiche di interpretazione. E’ accaduto durante la campagna referendaria: sia quando gli è stata carpita negli studi Matrix di Canale 5 la battuta sulla Presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi “da uccidere” sia successivamente quando ha consigliato al Sindaco di Agropoli la metafora “frittura di alici” per convincere i suoi commensali a votare per il “Si” in segno di riconoscimento per il flusso di risorse finanziarie promesse da Renzi per la Campania.
In entrambe le espressioni c’è chi ha intravisto un linguaggio compatibile con lo stile del mafioso o di chi caccia voti di scambio. Va detto anche che non sono mancate sui media locali esercitazioni semantiche per ricondurne il significato a modi dire del gergo partenopeo o cilentano. Resta insoluto il problema di conciliare pensiero e parole, anche per la giusta reputazione di che ne è l’autore. A tale proposito mi viene in mente un antico detto siciliano: “megghiu cornutu ca malu intisu”, nel senso che il peso della onorabilità è molto più grave nella incomprensione della parola detta per data.
In clima di riforme e di innovazione anche le parole hanno la loro evoluzione e possono essere assimilate alle pastoie della burocrazia le cui regole soffocano il libero esercizio degli amministratori di avanguardia o coraggiosi.
Vien da dire: è meglio un referendum per ricondurre il vocabolario alle esigenze della politica o una rottamazione d’ufficio per evitare il rischio del voto?