LA FINESTRA SUL CORTILE Antonio Di Donato, vittima della furia giustizialista
“Il cavese è molto strano: se sei all’apice vorrebbe vederti cadere in disgrazia. Se, invece, vede che stai affogando, finge di sollevarti, ma ti tira su quel tanto e poi ti lascia”.
A parlare così era Antonio Di Donato all’indomani della sentenza che lo assolveva dei reati che gli erano stati attribuiti nella kafkiana vicenda giudiziaria del sottovia veicolare. Lo dichiarava al mensile “Confronto” nell’aprile del 2003, in un’intervista dal titolo molto significativo: “La mia colpa? Vincere la gara del sottovia”.
E Antonio Di Donato non aveva per nulla torto. Era stato fino agli inizi degli novanta del secolo scorso un imprenditore affermato, il numero uno dei costruttori metelliani, ma anche tra i più importanti a livello regionale e anche oltre. Un uomo di successo, molto intelligente e imprenditorialmente audace, dotato però di senso della misura e assai attento nelle relazioni umani.
Poi, la tegola dell’inchiesta giudiziaria sull’appalto del sottovia, le accuse, il carcere preventivo, le indagini, i processi, fino all’assoluzione dopo dieci anni. In quegli anni tribolati, però, Di Donato non subì solo il processo di una nuova Santa Inquisizione, ma fu letteralmente azzannato tanto dai giornali quanto dall’opinione pubblica. C’era, infatti, in quegli anni di moralismo dilagante a limite della paranoia, la convinzione che la vicenda dell’appalto dei lavori del trincerone-sottovia nascondesse qualcosa di losco, di torbido, quantomeno di poco chiaro. Come ebbi modo di scrivere qualche anno dopo, la vita politica cittadina, così come nel resto del Paese, veniva scandita da «un rosario di inciuci, di infamie, di pettegolezzi. Alla fine, lo si diceva sì sottovoce, ma eravamo tutti convinti che quelli del Palazzo e dintorni erano una banda di ladri».
E fu anche e sopratutto per questa aria che si respirava sotto i portici che furono in pochi ad essere vicino e a sostenere Di Donato. Come tanti imprenditori e politici, finì tra gli appestati, da cui era meglio stare alla larga, dopo che fino a poco prima era stato riverito, stimato, osannato. Insomma, la verità è che fu la vittima cavese della furia giustizialista di quegli anni.
Ora che Antonio Di Donato è tornato alla casa del Padre, non posso che pormi nuovamente le stesse domande che mi ero posto all’indomani della sua assoluzione: gli era stato restituito l’onore, ma chi gli potrà restituire quello che gli è stato tolto come uomo, come cittadino, come padre, come imprenditore? Nessuno, purtroppo, almeno qui, tra i vivi.
Ed è per questo che, ora come allora, a prevalere è l’amarezza che, in questo giorno, si unisce alla tristezza. (foto Angelo Tortorella)