Italicum: se e come e con chi riformare la riforma della legge elettorale?
L’ argomento “legge elettorale” rappresenta l ‘eterno ritorno della politica italiana, almeno da ventitré anni a questa parte. Anche in questo spirare d’estate, negli interstizi lasciati liberi dalla vicenda della ” giunta interrupta” capitolina, la politica – e i media che la raccontano- è catturata dal racconto di come bisogna cambiare l’ Italicum.
Non che non condivida l’ argomento: per quel che può valere sono stato, pur annoverato tra i sostenitori del governo Renzi, tra i più tenaci critici della legge, che non ho votato ed ho provato a cambiare in tutti i modi. Ma tutta questa foga riformatoria appare un po’ come un ravvedimento tardivo e non sempre lineare. A meno che non abbia come vero obiettivo quello di rappresentare, alla vigilia della pronuncia della Consulta, un bouquet di argomenti capaci di riportare un “umore ” popolare diffuso e forse persino non più lontano dal “sentire” degli ambienti governativi. Che il movente sia questo o che abbia al centro effettivamente il merito della questione, non cambia molto.
Il punto vero è capire se e come e con chi riformare la riforma. I limiti dell’Italicum sono noti: il sistema dei capilista “bloccati” soffoca, in concreto, la possibilità di una scelta dal basso, consentendo una libera competizione tra candidati solo per la lista vincente; la mancata previsione delle alleanze, nel presupposto di forzare il sistema nel senso di uno schema bipartitico, risponde ad una idea astratta e superata della politica italiana, ormai saldamente insediata, così come il resto d’Europa, in uno schema tripolare; la scelta del doppio turno, senza prevedere una ragionevole soglia di partecipazione popolare al voto di ballottaggio, rischia di consegnare la maggioranza di 340 seggi prevista dalla legge ad una minoranza che rappresenta solo un quarto del paese.
E l’enumerazione delle disfunzioni potrebbe ancora continuare. Si chiede di cambiare l’Italicum, allora, facendo fioccare proposte elaborate. Francamente non credo che la maggioranza del Pd accetterebbe senza batter ciglio di smentire clamorosamente l’iniziativa di governo rimettendo in causa l’impianto della legge elettorale. Aggiustamenti, si, come ad esempio la possibilità di costruire coalizioni, condivisa da tutto il Parlamento (meno i Cinque stelle che non vogliono compagni di cordata) e la necessaria soglia di validazione per il secondo turno (se non va a votare la maggioranza degli aventi diritto non si assegna il vistoso premio di 340 seggi). Stravolgimenti no: sarebbero uno schiaffo al governo.
Il punto, però, è un altro: quando? Sì, perché si trascura di considerare che l’agenda della politica ha una scadenza ineludibile a novembre che si chiama referendum, a cui, bene o male è legato il destino del governo Renzi.
Proviamo a ragionare: se gli italiani votano si al referendum l’Esecutivo ne risulta rafforzato a tal punto da non avere motivo di modificare la propria legge elettorale (a meno di una pronuncia negativa della Consulta), considerando, peraltro, la non brillante prova di governo che il principale competitor, il movimento di Grillo, sta dando nella capitale. Dunque, dritti fino al voto.
Se tra gli italiani dovesse prevalere il no al referendum, è evidente che la legge elettorale andrebbe modificata, travolta dall’aborto della riforma costituzionale, quale che possa essere il governo in carica. Dunque, se riforma della riforma elettorale si deve fare, questa va fatta subito, prima del referendum. E, con tutta evidenza, non potrà essere una riforma che stravolge l’ Italicum, ma un intelligente aggiustamento capace di raccogliere il consenso più largo in Parlamento, governo compreso.
Pino Pisicchio
Presidente del Gruppo Misto alla Camera dei deputati