Le elezioni locali col turno di ballottaggio, quando non riescono a battezzare in prima battuta i nuovi sindaci, appaiono condannate ad una singolare dissolvenza mediatica che schiaccia il risultato tra l’incompiutezza del primo turno e il non ancora del secondo.
Così è avvenuto con il voto di domenica 5 giugno, che ha consegnato, per via dei numerosi ballottaggi in pista nelle maggiori città, un quadro scontornato nella sua cornice, seppure carico di indizi molto interessanti. Il primo indizio, naturalmente, il progressivo aumento dell’astensionismo, che ha guadagnato ulteriori cinque punti rispetto alle precedenti votazioni. Un dato non contraddittorio con tutte le altre tornate elettorali italiane, dalle politiche alle europee e coerente con la tendenza che si afferma da tempo in tutte le democrazie occidentali, a cominciare da quella americana.
Non è ancora preoccupante, forse, ma pone un serio problema su come valorizzare la partecipazione dei cittadini alla vita civile della comunità, soprattutto dopo la crisi drammatica che stanno vivendo i canali tradizionali della partecipazione democratica, i partiti politici.
I partiti, e questo è il secondo elemento, rappresentano presenze largamente minoritarie in questa tornata elettorale, che ha visto l’esplosione delle civiche, ben oltre il livello “fisiologico” proposto in analoghe tornate elettorali. Non è mancato tra i commentatori chi ha visto nelle “civiche” i luoghi del trasformismo o del mimetismo politico: critiche davvero singolari, che tendono a trasmutare l’effetto di una crisi irreversibile della forma partito, nella sua causa. In realtà, le civiche sono una modalità diversa della organizzazione politica nella stagione post-ideologica, destinata probabilmente a tracciare una via possibile di partecipazione.
Terzo dato: le forme della propaganda hanno abbandonato, per lo più, il porta a porta tipico delle campagne elettorali con voto di preferenza che si svolgono nelle comunità locali, per abbracciare invece le modalità delle campagne politiche, essenzialmente mediatiche e “immateriali”. Questo ha insediato una sorta di rumore di fondo al posto del rapporto interpersonale e, alla fine, ha diradato sensibilmente i voti di preferenza: nuove generazioni di “galoppini on web” s’affacciano alla politica, destituendo di attualità le romanticherie dei “santini”, con tanto di foto sorridente e di slogan fatto in casa.
Quarto dato: la fragilità delle leadership lanciate nel conflitto elettorale, in una stagione politica che devolve ai leader la tenuta di tutto l’impianto politico. Una chiosa finale sulle formazioni politiche nazionali: se dovessimo valutare i risultati del 5 giugno da quello che si è visto nelle prime quattro città italiane, gli otto candidati che giungono al secondo turno sono equamente suddivisi tra le tre aree politiche maggiori, il PD (con tre candidati, FI, ancorché declinante, con due, e i Cinque Stelle con due. L’ultimo degli otto l’indipendente De Magistris).
Che vuol dire questo? Certamente che non si registra una egemonia netta e incontestabile da parte di nessuno, ma si sta vivendo un clima di grande sperimentazione, ingombrato da incertezze e da indecisioni. Forse sono da dismettere le antiche chiavi di lettura politiciste, sicuramente vanno messe nel deposito delle anticaglie quelle ideologiche. Perché la politica si annuncia come una categoria che reclama ermeneutiche diverse, capaci di dare un senso alla continuità della partecipazione, senza esaurirla nel solo episodio elettorale. Ma questa è già un’altra storia: per adesso non ci resta che aspettare i ballottaggi.