Referendum, strumento di democrazia diretta da riformare e rinvigorire
Dopo la grande ubriacatura dei referendum elettorali che trascinavano al si tutti i quesiti di questa terra purché si votassero nella stessa giornata, all’inizio degli anni ’90, il quorum di validazione del cinquanta per cento più uno ha sempre fatto fatica ad essere agguantato in Italia.
Fece eccezione il plebiscito del 2011 sull’acqua pubblica e il nucleare, che trascinò al traguardo, con quasi il 55% dei votanti anche un altro paio di quesiti. Fuori da questo ritorno di fiamma, pertanto, gli altri ventiquattro referendum abrogativi, sul totale dei 64 celebrati in quarantadue anni (il primo risale al 1974 ed era quello sul divorzio e vide la partecipazione dell’87,7% degli elettori) hanno menato negli ultimi tempi una vita molto grama, con partecipazioni al voto oscillanti tra il 23 e il 32 % di partecipanti. Tutti referendum senza esito.
Come quello di domenica sulle trivelle. Strano paese il nostro: butta tutto in politica e tramuta un quesito a volte tecnicamente assai complesso, in un oggetto contundente contro il governo e la sua maggioranza. Il peso del merito? Del tutto inesistente.
La mia cattiva abitudine a non disertare le urne (lo so, sono démodé) che mi ha portato alle urne ogni volta che si celebrava il referendum, mi ha messo spesso in faccia quesiti complicati (ricordo quello sulla abolizione della preferenza plurima nel 1991 che faceva dire a Craxi la famosa frase “andatevene al mare”), che venivano affrontati dall’elettore con disinvoltura esemplare. Perché il merito non c’entrava: si trattava di votare “contro”.
Fu allora che la storia del referendum in Italia prese un altro verso: attenzione, fino a quel momento il combaciamento tra voto degli elettori e indicazioni dei partiti era stato perfetto. Si può agevolmente verificare, facendo la somma nei referendum precedenti, dei voti raccolti dai partiti schierati per una delle due opzioni, con l’esito referendario relativo ai consensi andati
all’opzione dagli stessi sostenuta.
Poi, dopo quel voto, la magia si ruppe: cominciò il declino dei partiti che non rappresentarono più il corpo elettorale. Fu l’epifania della seconda Repubblica senza i partiti e con i leader carismatici. E fu anche l’inizio del declino dell’istituto referendario: un grande strumento di democrazia diretta che oggi necessita di un rinvigorimento attraverso una seria riforma.
Occorrerebbe agire su due livelli di intervento, il quorum di validazione, che ormai resta una chimera in una stagione in cui la partecipazione è così rarefatta, ed il quorum di firme necessarie per la presentazione, cinquecentomila che, nella stagione della comunicazione globale sono assai più facili da raggiungere rispetto al 1970, anno in cui venne approvata la legge.
E poi si potrebbe anche sperimentare, a certe condizioni, il voto on line. Forse così l’istituto referendario potrebbe tornare alla sua vocazione autentica di correzione di un’attività legislativa non condivisa dal popolo. E non diventare un plebiscito pro o contro il governo. Che questa volta ha vinto, indubitabilmente, Matteo Renzi. (foto Angelo Tortorella)