Il commento più fulminante estratto nel profluvio di sociologismi, analisi politologiche e notazioni osannanti all’indirizzo di Checco Zalone, rara specie di Re Mida del botteghino di questi giorni, è quello di Buttafuoco, che lo paragona a un pupo del presepio. Quelli, in genere pastori di rango minore, che guardano al bambinello con l’espressione della “meraviglia”: braccia spalancate, occhi trasognati e labbra e bocca quasi schiuse ma non del tutto.
Per il resto comparazioni arrampicate nei lombi più nobili della letteratura classica- Aristofane, uno tra i molti- accostamenti alla Commedia dell’Arte, a Totò, naturalmente, ad Alberto Sordi, fino a scivolare a Franchi e Ingrassia.
E ancora: arricciamenti di naso dei supersnob (i critici laureati a sinistra del partito comunista cinese, ormai oggetto di culto nelle satire zalonesche..), perché “la grande commedia all’italiana, quella sì, non consolava e aveva sempre l’amaro in bocca..”.
Insomma: quando un film in tre giorni fa 22 milioni di incasso e tre milioni di spettatori paganti il fenomeno attraversa di diritto tutte le dimensioni dello scibile umano: dalla sociologia, appunto, alla numismatica. Passando dal marketing e dalla politica.
Il film, naturalmente, è godibile e poggia su una struttura narrativa più consapevole e ancora più ambiziosa delle prove passate, non c’è che dire. Ma riserviamo la critica di “Quo vado?” ai critici di professione.
A noi lasciamo la domanda: perché, al netto della qualità del film, questo plebiscito nazionale, ora?
Perché Checco oggi interpreta l’umore profondo di questo nostro paese, con un piede dentro la contemporaneità, grigia e bigia, ed un’altro impigliato nella mitologia di un Eldorado che ci deve essere stato per forza, perché qualche scampolo di racconto dei padri ce l’ha fatto intravvedere. Ma se c’era davvero non si trattava di un tempo che vestiva gli abiti di quella Prima Repubblica celentanesca che fa da colonna sonora al film, perché “l’amaro” Checco lo riserva proprio ai privilegi truffaldini di quella stagione: le stanze piene di illecite regalie “alimentari” fatte al funzionario pubblico infedele, e la stessa macchietta del vecchio senatore Binetto, un Lino Banfi in piena consonanza con la sua eterna maschera.
La mitologia di cui si nutre il personaggio di Checco in tutti i suoi film è, invece, quella di un ristretto catalogo di tic, credenze, giudizi e pregiudizi, attinti dal pantheon piccolo borghese che domina l’Italia contemporanea. E che vengono “sublimati” dalla sua baresità: un carattere antropologico, misto di cinismo, diffidenza ed innocenza, che fa sintesi dell’italianità con un di più di prosa ferocemente fulminante, in cui battuta ed espressione facciale sembrano asincrone, ma sono capaci di dire in un amen ciò che in “lingua” sarebbe raccontato solo con una lunga perifrasi.
Gennaro Nunziante raccontava Checco Zalone già negli anni ’90, ma forse con abiti ancora stretti in uno slang culturale prima ancora che lessicale. Oggi Checco ha trovato Luca e gli Italiani hanno scoperto di assomigliargli. Così è nato un fenomeno.