Cava e Salerno durante la rivolta di Masaniello
A Cava la rivolta fu più stratificata e decisamente più riformatrice in quanto le tappe della rivolta si decisero in massima parte tra i banchi comunali. Ciò non è casuale, infatti la Città de la Cava aveva una spiccata identità dovuta al sentimento filomonarchico, al legame con Napoli e soprattutto alla condizione di città demaniale
Napoli, 7 luglio 1647 – La città di Napoli fu scossa da una violenta rivolta popolare guidata da un pescatore, Tommaso Aniello d’Amalfi, meglio conosciuto come Masaniello. La scintilla che ha innescò l’esplosione fu l’esasperazione per le pesanti tasse imposte dal governo spagnolo, che gravavano soprattutto sulle spalle dei più poveri.
Ma cosa successe in quei giorni a Cava e a Salerno?
Esattamente un giorno dopo lo scoppio della rivolta nella Capitale, i primi tumulti si registrarono a Salerno con l’evasione dei detenuti dalle carceri. La sera stessa, presso la chiesa di San Matteo, vennero suonate le campane della rivolta. Da quel momento la città fu messa a ferro e fuoco dai rivoluzionari, trucidando i nobili e bruciando le loro case. Sembrava che non si attendesse altro, il furore della rivolta si abbatté con violenza anche a causa del capopopolo Ippolito da Pastena.
A Cava la rivolta fu più stratificata e decisamente più riformatrice in quanto le tappe della rivolta si decisero in massima parte tra i banchi comunali. Ciò non è casuale, infatti la Città de la Cava aveva una spiccata identità dovuta al sentimento filomonarchico, al legame con Napoli e soprattutto alla condizione di città demaniale; lo status di demanio regio consentiva alla Città di tutelarsi da qualsiasi infeudamento e dalle soffocanti tasse baronali. Quindi appare subito evidente come i maggiorenti cavesi e il “ceto medio” non avessero in animo di inimicarsi la corona. Ma proprio la classe intermedia o, per meglio dire, il patriziato fu protagonista della sollevazione cavese.
Il patriziato era composto da professionisti, commercianti, notai, medici e militari ossia tutti i “nuovi arricchiti” emarginati dal potere detenuto esclusivamente dai maggiorenti i quali sventolavano la loro noblesse per monopolizzare i centri dell’amministrazione.
Le prime schermaglie tra le due fazioni cominciarono già una decina di anni prima con la deliberazione del sindaco De Ruggiero sulla separazione dei nobili di Cava. Cominciò così una sottile guerra di nervi che si infiammò l’11 luglio 1647, ossia quattro giorni dopo l’inizio della ribellione a Napoli.
Da un lato la noblesse difendeva il proprio status, dall’altro i cosiddetti parvenu cercavano un posto al sole. E la plebe?
La plebe fu l’arma del patriziato per dirottare a proprio piacimento la rivolta. Quindi la sedizione ebbe dei tratti tutto sommati contenuti. Le rivendicazioni della plebe erano quelle dell’abbassamento delle tasse e migliori condizioni economiche, per questo si registrò un attacco ai gabellieri e di conseguenza furono bruciati i documenti tributari.
Con la riforma dell’amministrazione cittadina del 15 luglio ’47 il patriziato ottenne la sua fetta di potere con la rotazione dei sindaci per distretto. Ci fu anche la decisione di nominare quattro avvocati dei poveri. Cosa molto importante, nel documento si ribadiva la fedeltà della Città de la Cava alla Corona.
Questi fu un passaggio fondamentale poiché, con la fine di Masaniello e della rivolta e nonostante l’inasprimento del conflitto da parte della plebe cavese, non fu mai messa in discussione la demanialità della Città della Cava e la sua reputazione di città fedelissima. Salerno invece dovette tutelare la propria demanialità, oltre che leccarsi le ferite per i saccheggi compiuti in nome di Ippolito da Pastena.
Fonte: La gran machina della solleuatione. Due città e un capopopolo nella rivolta di Masaniello (autore: Giuseppe Foscari)