LIBRI & LIBRI Dal passato risorge il vecchio ragtime
De Stefano, nella sua approfondita analisi di un genere alle radici del jazz, evidenzia che la prassi esecutiva è di solito angolosa, geometrica, con un uso modesto del pedaIe
È trascorso più di un secolo da quando, nel Middlewest degli Stati Uniti, si diffusero le prime note del ragtime pianistico. Forse si tratta di qualche anno di più o di meno, è impossibile dirlo. Il fatto, comunque, avvenne a cavallo fra gli «eleganti Anni Ottanta e i «gioiosi» Novanta.
L’America viveva giorni fitti di notizie avventurose e di novità impreviste: le biciclette abbandonavano le gomme piene e montavano i pneumatici, la giornalista Nelly Bly compiva il giro del mondo in settantadue giorni, Henry Ford lanciava sul mercato la prima automobile. I giovani cominciavano a porre in decorosa discussione l’autorità dei padri. Le canzoni di successo erano indecise fra i motivi sentimentali e i temi capaci di riflettere la realtà sociale, ma erano belle e numerose, anche se di pochi autori.
Tutto questo e altro nella terza e nuova edizione aggiornata, ampliata e ricca di un corredo iconografico del libro del musicologo Gildo De Stefano, dal titolo “Il Ragtime – Storia di quel ritmo sincopato antenato del jazz” (Logisma Editore, Firenze 2024, pagg. 268, €. 26,00), con la prestigiosa prefazione del grande poeta afroamericano Amiri Baraka (Leroi Jones) e la postfazione di Renzo Arbore.
II ragtime (che letteralmente significa «tempo strappato») è una delle tante forme della musica popolare nordamericana che precedono nel tempo il jazz e concorrono a definirne la fisionomia. Nella seconda metà del XIX secolo, i neri continuano a intonare i loro spirituals e i loro blues e gareggiano coi bianchi nel comporre quelle sintesi perfette di musica e di poesia che sono le ballate. Ma il ragtime si fa notare subito come qualcosa di diverso. La sua fortuna dipende dal grande amore che gli americani di qualunque classe sociale imparano a nutrire per il pianoforte, inteso sia come pianoforte vero e proprio, sia come pianola o pianoforte meccanico che diventa il veicolo di tradizione del ragtime verso le generazioni future.
Una canzone bianca suonata al pianoforte da un nero è la prima definizione che ne viene data, indipendentemente dalla sua struttura. E infatti sono soprattutto neri i musicisti che picchiano sodo sulla tastiera nelle barrelhouses e nei saloons, costruendo lo stereotipo americano dell’entertainer maledetto che suona in maniche di camicia tra il fumo, il rumore, le bottiglie di birra che scivolano veloci suI tavolo liscio.
È un’immagine, però, che appartiene già al momento commerciale del ragtime, il cui apice si verifica attorno al 1915 in tutta l’area centro-orientale degli Stati Uniti, soprattutto a New York e a Chicago, ed è seguito da un rapido declino. Un ragtime originario col suo ritmo allegro e danzante, il linguaggio asciutto privo di concessioni plateali e di abbandoni sentimentali, è una cosa molto seria.
I singoli brani si chiamano rags. Sono costruiti su tre o quattro ritornelli aperti da un’introduzione e legati fra loro da efficaci modulazioni. Il finale è generalmente tronco, un vero e proprio salto privo di code, la mano sinistra del pianista batte con forza i quattro tempi per misura, mentre la destra disegna e ripete la linea melodica, introducendovi molte sincopi che danno ai suoni un singolare ed eccitante movimento interno; questo trasmette all’ascoltatore un senso d’instabilità, di dondolii e di strappi continui, da cui il nome.
De Stefano, nella sua approfondita analisi di un genere alle radici del jazz, evidenzia che la prassi esecutiva è di solito angolosa, geometrica, con un uso modesto del pedaIe, e che questi caratteri vengono esaltati dalla meccanicità della pianola.
L’improvvisazione, presente in tutte le correnti musicali popolari afroamericane e più ancora nel jazz, non compare affatto nel ragtime. I primi rags sono mandati a memoria ed eseguiti ogni volta tali e quali; poi, quando si affermano i compositori ancor oggi ricordati come Scott Joplin, James Scott e Tom Turpin, le partiture vengono regolarmente pubblicate da editori che accordano agli autori una royalty dell’uno per cento. Per ogni spartito venduto, attuano uno sfruttamento sistematico e clamoroso, comunque accettato.
La stampa delle musiche gratifica i compositori che in questo modo si sentono avvicinati ai grandi autori classici.
L’autore si interroga anche sul perché si parla dei rags come di «canzoni bianche», sebbene siano in prevalenza neri tanto i compositori quanto gli interpreti. Questo è il punto più importante. In questo libro, unico in Italia e in Europa, si spiega che la struttura dei rags è simile a quella delle marce militari dei pionieri americani. E nei materiali tematici è spesso facile riconoscere i nuclei di polche, quadriglie, perfino di brani minori di musica classica dequalificati a pezzi da cabaret, ossia di espressioni bianche che gli autori-esecutori neri rielaborano interpretandole poi sempre nello stesso modo, senza variazioni.
Ecco quindi che il ragtime, più che come una vera e propria corrente musicale autonoma, va definito come un assieme di moduli secondo i quali qualsiasi genere di musica può essere trattato. È appena il caso di ricordare che dei caratteri del jazz tradizionale gli specialisti danno una spiegazione analoga. E infatti, il ragtime e il jazz sono talmente vicini tra loro, separati soltanto dalla prassi dell’improvvisazione e dell’orchestrazione jazzistica, che gli ascoltatori dei primi due decenni del nostro secolo, nemmeno si accorgono delle differenze, e per qualche tempo chiamano ‘ragtime bands’ le orchestre di jazz.
Oggi i piccoli capolavori dei ragtimers (ma c’è perfino un melodramma rag di Scott Joplin intitolato “Treemonisha”, ripreso di recente in varie versioni teatrali e discografiche) si possono ascoltare nelle esecuzioni originali, malgrado che all’epoca la tecnica fonografica sia ancora nella fase sperimentale. Questo accade perché i suoni dei pianisti di ragtime, sin dalla fine del secolo scorso, vengono conservati forando i rulli dei pianoforti meccanici. I rulli poi, opportunamente ripedalati da altri pianisti in epoca posteriore, restituiscono quei suoni che vengono registrati con metodologie sempre più sofisticate.
In questo libro, dunque, De Stefano sottolinea come la presenza di questi documenti, assieme a un complesso di altri fattori minori, ha prodotto mezzo secolo fa un improvviso recupero del ragtime a livello internazionale che lo ha riportato al centro della ribalta.
L’autore pone l’accento su fatto che sebbene esistano gli spartiti, i dischi sono indispensabili. Chi legge quei pentagrammi, specialmente se non è un jazzista, può pensare che siano di esecuzione assai facile. Invece, pur se manca l’improvvisazione, suonare ragtime significa provvedere i simboli grafici di un dinamismo particolare, di colori e di pronunce che vanno oltre la scrittura, la cui assenza vanifica del tutto l’interpretazione.
Gianni Blasio