Elezioni, dopo la Sardegna per chi suona la campana?
La vittoria di Todde è figlia del voto disgiunto espresso in suo favore da circa 3.000 elettori che sulla scheda hanno segnato con le rispettive “matite” uno dei simboli del centrodestra
Il voto uscito dalle urne elettorali della Sardegna, epurato dalla legittima soddisfazione della candidata vincente, Alessandra Todde del M5S, non è sufficiente per far dire alla Segreteria del PD Elly Schlein che il “vento è cambiato” ed all’ex Premier pentastellato Giuseppe Conte che spira un “vento nuovo”: entrambi motivati dalla sconfitta del candidato del centrodestra, Paolo Tuzzu di FdI.
Nelle rilevazioni effettuate nel dopo voto da Demopolis PD e M5S recuperano, rispettivamente, un punto ed un 1,2% rispetto al mese di Gennaio. Troppo poco per gonfiare le vele del sorpasso sulla coalizione di centrodestra che conferma FdI come primo partito al 28%, FI al 7% e penalizza la Lega dello 0,4%. In complesso se si votasse oggi per le politiche il centrodestra viene dato al 43,5%, al 41,5% l’area progressista comprendente PD e M5S ed all’8% il cosiddetto terzo polo. Anche il risultato conseguito in Sardegna dalle liste dei partiti coalizzati a sostegno di ciascun candidato Presidente rappresenta una differenza di circa 5.000 voti in più per il centrodestra rispetto al campo largo o giusto, che dir si voglia, a trazione M5S e PD.
La vittoria di Alessandra Todde è figlia del voto disgiunto espresso in suo favore da circa 3.000 elettori che sulla scheda hanno segnato con le rispettive “matite” uno dei simboli del centrodestra. E perciò non può dirsi elegante la sua frase, pronunziata a risultato acquisito: “i sardi hanno risposto con le matite ai manganelli”. Va preso come uno slogan velenoso proiettato per futuri appuntamenti. Tuttavia, non si può non riconoscerle il merito del traguardo raggiunto, sia pure al fotofinish, per avere impostato la campagna elettorale sulla “sardinità”, distante dal padrinaggio politico di Giuseppe Conte e di Elly Schlein, i quali sono sbarcati a Cagliari solo a scrutinio concluso ed accolti per la foto cerimonia della vittoria. Mentre l’antagonista, Paolo Tuzzu, è stato percepito come una figura imposta, calata dall’alto, nonostante egli fosse Sindaco di Cagliari, la città nella quale ha perso di più sul piano del confronto personale.
La scelta della sua candidatura, travagliata in un braccio di ferro tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini, a risultato acquisito negativamente, ha fatto dire ai due, in una dichiarazione congiunta con Antonio Tajani, che dagli errori si impara. Anche questa presa d’atto da parte dei tre leader della coalizione che sorregge il Governo della Nazione non basta a prevenire smottamenti nelle realtà locali dove i consensi politici si conferiscono e si raccolgono sulla credibilità ed affidabilità degli uomini proposti.
E, per di più, in un sistema elettorale polarizzato, il fattore antropologico, come valore aggiunto, non è intercambiabile secondo la logica dell’uno vale altro o del criterio spartitorio “chist p’me e chist p’te”. Dopo il “mea culpa” il centrodestra ha da riassorbire tossine, da riequilibrare rapporti fra i suoi partner e da ricalibrare priorità nell’attività di Governo.
Nel centrosinistra o area progressista permangono aperte le questioni della leadership e delle traiettorie politiche da condividere. Anticipando i potenziali partner, Elly Schlein ha lanciato un appello all’unione di “tutte le opposizioni” prefigurando per i prossimi appuntamenti elettorali una sorta di referendum sulla Premier Giorgia Meloni, con rimando del punto di caduta per la verifica della consistenza nazionale di ciascuna forza politica alle Europee di Giugno prossimo.
Per chiunque suonerà la campana nelle Regioni, nelle Città e nelle stesse Europee la natura di tali consultazioni può produrre, rispettivamente, effetti sui Governi locali e su possibili rese dei conti nei partiti, ma non dovrebbe incidere sulla salute politica del Governo. Ma questo è un altro capitolo.