Geolier, Dario Fo e Troisi: le non-regole del linguaggio
Attorno al ventitreenne di Secondigliano si è avviluppata una matassa di contestazioni le quali, a parer mio, porteranno benefici alla sua immagine ma che, d'altra parte, ha acceso i riflettori su un sentimento largamente diffuso tra gli italiani: la ritrosia, ai limiti dell'insofferenza, verso il vernacolo napoletano
La settantaquattresima edizione del festival di Sanremo si è conclusa, Angelina Mango ha vinto e Amadeus, con mamma RAI, può festeggiare il record di share.
La peculiarità del più importante torneo musicale è la polemica, perché le controversie sono il miglior condimento per insaporire un prodotto che va avanti da quasi un secolo. A tal proposito, il protagonista indiscusso è il secondo classificato: l’artista napoletano Geolier.
Attorno al ventitreenne di Secondigliano si è avviluppata una matassa di contestazioni le quali, a parer mio, porteranno benefici alla sua immagine ma che, d’altra parte, ha acceso i riflettori su un sentimento largamente diffuso tra gli italiani: la ritrosia, ai limiti dell’insofferenza, verso il vernacolo napoletano.
Voglio credere che le reazioni, come subissare di fischi il cantante, andar via durante la sua performance, sguinzagliare giornalisti dalla lingua biforcuta e susseguenti armate di puristi indignati, si sarebbero verificate anche per qualsiasi altra forma vernacolare.
Per intenderci, la sacralità dei gusti personali è inviolabile e chi scrive non inserisce Geolier tra le sue preferenze musicali, tutt’altro. Ma, oltre a trovare discutibili i modi per manifestare dissenso, ritengo che l’oggetto della contestazione sia pretestuoso: il vernacolo, i dialetti, o qualsiasi altra deformazione dalla lingua italiana non dovrebbe essere un limite.
Nonostante ciò la carriera di un cantante, di un attore o di un comico viene spesso ridimensionata da una fetta di critica che trasuda una spocchiosa sicumera, impossibilitata per natura o per volontà a far spaziare i propri sensi nella sinfonia dei concetti; la musicalità delle parole, il ritmo, la gestualità e tutto quell’apparato di giochi di suoni che richiamano alla mente dei concetti pur ignorando le singole parole.
Questo preciso meccanismo è ciò che si innesca quando udiamo il grammelot, ossia la lingua che compendia dialetti italiani, parlate francofone e tedesche, una serie di grugniti ed altri vocalizzi; “tutte le lingue e nessuna” eppure, miracolosamente, possiamo capirne il senso. Dario Fo elevò il grammelot all’ennesima potenza nel suo “Mistero Buffo” ed anche lui si scontrò con una parte della critica per l’incomprensibilità delle parole ma che, dopo circa trent’anni dalla prima messa in scena, gli valse il premio Nobel per la Letteratura. Massimo Troisi fece del napoletano il suo pennello in cui intingere i colori del suo essere e, anche lui, conobbe un’audience più asservita al sentire che all’ascolto.