L’enigma delle autonomie differenziate
Dubbi sono stati sollevati, in sede di elaborazione della stessa Costituzione, sulla tenuta dell’unità istituzionale della Nazione: non solo politica, ma anche civile e culturale per le diverse realtà storiche e territoriali della Penisola, aggravate dal divario sociale ed economico tra Nord e Sud del Paese
La nostra Costituzione, la più bella del mondo, esaltata per principi fondamentali ed invocata per rivendicare diritti, è stata fonte di controversie politiche e di contenziosi istituzionali nel dare corso all’attuazione delle Regioni e nella relativa configurazione di poteri e competenze.
Eppure, con l’art. 5, la Repubblica, “una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali” ed adegua la “sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Come fare ad assecondarne, con questa cornice, poteri legislativi, esercizio ed assetto di governi territoriali lo rimanda al titolo V dedicato all’ordinamento di Regioni, Province e Comuni.
Dubbi sono stati sollevati, in sede di elaborazione della stessa Costituzione, sulla tenuta dell’unità istituzionale della Nazione: non solo politica, ma anche civile e culturale per le diverse realtà storiche e territoriali della Penisola, aggravate dal divario sociale ed economico tra Nord e Sud del Paese.
Si paventava la riduzione dell’Italia “in pillole”, da parte di alcuni costituenti memori, probabilmente, della concessione di uno Statuto speciale, già accordato alla Sicilia in risposta, alle suggestioni separatiste in fermento nell’Isola. Il dettato costituzionale per le Regioni a Statuto ordinario, rimosso dall’agenda politica nazionale per un ventennio, è andato in applicazione il 7 Giugno 1970.
“Tante volte rinviata dalla classe dirigente democratica, non certo per volontà di inadempienze o per negligenza costituzionale, quanto per motivi di perplessità e di incertezze” che venivano esplicitate nell’editoriale del Corriere della Sera, allora diretto da Giovanni Spadolini, dedicato alla scelta degli elettori “per la salvaguardia della libertà, per la difesa delle istituzioni minacciate da un moto oscuro e insondabile di negazione e di rivolta”.
Dubbi e ripensamenti avevano toccato, nel precedente ventennio, coscienze di leader provenienti dal più convinto regionalismo, come Alcide De Gasperi ed Ugo La Malfa, motivati dalla presenza di un forte PCI, la cui collocazione era ritenuta incompatibile con la democrazia occidentale, nonostante la condanna espressa dai comunisti italiani per la repressione di Praga.
Si temeva una cosiddetta “politica del carciofo”, così la definiva Alberto Giovannini, direttore del quotidiano “Roma”, come una sorta di strategia di conquista di una Regione dopo l’altra “per dare una spallata finale al sistema”.
Più di un quotidiano attribuiva al voto del 7 Giugno pari importanza a quello del 18 Aprile del 1948, potendosi rivelare il potere regionale “un salto nel buio”, per Giovannini, o “la verifica del tipo di sviluppo democratico del Paese”, come sosteneva Arnaldo Forlani, Segretario nazionale della DC, perché, ammoniva, “non si batte il comunismo con la paura e l’incertezza, né con una concezione accentratrice ed illiberale dello Stato”. Anche per Ciriaco De Mita la DC era impegnata a conservare “le regole della convivenza democratica” intravedendo nella Regione “uno strumento di partecipazione politica esplosa nella società italiana”.
E per Francesco De Martino, leader del PSI, allora vicepresidente del Consiglio dei Ministri, le Regioni erano viste come organi di “autonomia e di autogoverno”, non di semplice decentramento, e come “potente mezzo per imprimere impulso allo sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno”. Ma, al traguardo del primo ventennio la Regione, in Campania, arrivava con un profilo “opaco, esangue” e distante dalla domanda proveniente dalla “società civile”.
Lo evidenziava Giuseppe Venditto, comunista, a conclusione di un convegno (ISVEIMER/19-20 Gennaio 1990) promosso dalla Presidenza del Consiglio regionale, i cui elementi raccolti e dibattuti inducevano ad un ripensamento dell’istituto regionale.
“Un ripensamento critico, senza illusioni e senza abdicazioni, delle Regioni, come istituzioni e del regionalismo come filone di pensiero” lo scriveva sul “Il Messaggero” del 23. 2. 1990 il Ministro per le Regioni Antonio Maccanico, per il quale, paradossalmente, il ventennio delle autonomie aveva favorito “la continuità di un vecchio centralismo”, rivelatosi carente nella capacità di “valorizzazione di una effettiva dimensione regionale della classe politica”.
Nel successivo ventennio è stata cambiata la forma di elezione dei Presidenti di Regione, non più dal Consiglio regionale, ma direttamente dal corpo elettorale, ed è stato riscritto il titolo V che introduce la possibilità di autonomie differenziate e cancella la voce Mezzogiorno come area destinataria di “contributi speciali”.
Questa riforma, argomentata da un’intesa politica tra Massimo D’Alema (DS) ed Umberto Bossi (Lega) e promossa con un Referendum, è rimasta lettera morta per un ventennio, attraversando diverse stagioni politiche in cui si sono consumate 9 formule di governo, di cui quattro con Premier espressione di centro-sinistra, uno di centro-destra, due tecnici e due del M5S. Un tentativo di rianimazione è stato provato nel 2018 con richieste di trasferimento di ulteriori competenze avanzate al Governo di centro-sinistra presieduto da Paolo Gentiloni, da parte di Governatori di diverse Regioni, da Nord a Sud; non è andato in porto per fine legislatura, ma scritto ed inevaso nell’agenda dei successivi Governi, politici e tecnici, è stato ripreso dall’attuale Ministro per le Regioni Roberto Calderoli con un ddl, il cui articolato di attuazione del citato titolo V è stato già approvato dal Senato. In previsione del relativo passaggio alla Camera dei Deputati gli viene contestata, da parte delle opposizioni, interne ed esterne al Parlamento, un’ideazione che “spacca l’Italia” tra Regioni, ricche e povere del Nord e del Sud.
Il problema è reale ed è, in verità, una questione che tormenta l’Italia sin dalla sua unità. Al nascere dell’era repubblicana, esso è stato affrontato dall’intuizione politica e culturale di Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri, con la istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, e dalla sua conduzione da parte di Pasquale Saraceno: entrambi non meridionali.
L’impostazione del relativo intervento straordinario sulle infrastrutture civili e di prospettiva per le economie del territorio faceva prevedere che il divario si sarebbe potuto colmare nel 2020, secondo una lettura della situazione resa nel 1972 da Pasquale Saraceno in un rapporto per il Ministero del Bilancio. Da lì, lo sviluppo del Mezzogiorno è passato in carico alle neonate Regioni in maniera disordinata, attore un ceto politico sospeso tra aspirazioni e scalate ai vertici centrali di partiti ed istituzioni nazionali e pratiche di mediazione, scambio o baratto per il recupero di risorse, da distribuite a pioggia e senza programmazioni di prospettiva, in favore dei rispettivi territori di elezione. Certamente, l’assetto prefigurato nel ddl Calderoli non è privo di criticità, ma trattandosi di un dettato costituzionale o si attua o si cancella o permane nella carta, semplicemente, a futura memoria.
Sul punto, al di là di ogni ipocrisia, resta da sciogliere uno enigma con almeno due incognite: la copertura finanziaria dei livelli di prestazioni essenziali (Lep) uguali per tutti, a livello nazionale, e la capacità di competizione del ceto politico delle singole Regioni meridionali una volta aperta la partita delle intese sulle autonomie.
Si vedrà “chi ha più gambe, corre e più vince chi le ha buone”: è una delle risposte date, in una intervista rilasciata al quotidiano “la Repubblica” (16.01.2024), da Sabino Cassese, consigliere emerito della Consulta, precisando che questo suo pensiero è “dello studioso, uomo del Sud che alla questione meridionale ha dedicato un libro”.
A prescindere e distante da ogni “caciara” elettorale.