Sull’abitudine
Viviamo e ragioniamo nella nostra piccola sfera quotidiana, acquisendo e scoprendo conoscenze di quell’insieme di punti che altro non fanno che collegarsi ad un segmento già preciso, noi
È attraverso l’intuizione che, secondo Spinoza, permettiamo al nostro intelletto d’esser parte imprescindibile di quell’essere infinito che egli immagina essere il nostro universo.
Una nuova conoscenza, d’altro canto, può essere paragonata ad una piccola nascita, un nuovo divenire. Una ormai acquisita aggiunta a quella che è la nostra sfera conoscitiva che ci fa scoprire, o meglio riscoprire, qualcosa sulla stessa vita che ormai ci sembrava non avere più segreti per noi.
Questo perché, parliamoci chiaro, per quanto ognuno possa manifestarsi come umile ignorante di fronte alle infinite conoscenze del nostro mondo, con quante di queste abbiamo o avremo realmente a che fare? Viviamo e ragioniamo nella nostra piccola sfera quotidiana, acquisendo e scoprendo conoscenze di quell’insieme di punti che altro non fanno che collegarsi ad un segmento già preciso, noi.
Di questa infinita fonte che è la vita prendiamo esattamente quanto ci basta, giustamente dettati da una finitezza che, è lapalissiano dirlo, non può certamente stare al passo con un qualcosa che almeno apparentemente di finito non è. Ed è in questo microclima che sorge come un sole spento una attitudine,che fa ombra su quelle nuove luci che avevamo intuito, l’abitudine. In effetti quello stesso occhio capace di cogliere il più bello dei tramonti tenderà ad impigrirsi se costretto ogni qualvolta che chiude le palpebre a ritrovarsi di fronte a quella stessa immagine che in un primo momento l’aveva stupito.
L’abitudine diventa in quest’ottica una potente arma, impugnata non per scelta, che la nostra coscienza impone ad un qualcosa di già visto o sentito, una preparazione atta a cancellare quel senso di stupore o paura che prima sovveniva di fronte ad un qualcosa di “nuovo”, come un album fotografico che tende a sostituire una foto appena scattata con una simile scattata tempo prima, riducendo lo spirito d’un qualcosa da essenza ad essere. E in un certo senso è giusto così, se tutto dovesse stupirmi cosa mi stupirebbe per davvero? Non è possibile ripetere una prima esperienza all’infinito, perderebbe di valore un qualcosa che mi è possibile riprodurre ogni qual volta che lo desidero, e anche il desiderio stesso finirebbe per diventare necessità.
Ma allora, con le gambe a cavalcioni in quella linea che sta tra spazio e tempo, come facciamo a fuggire da quella finitezza creata da questa linea divisoria? Non è possibile dedicare una vita intera a stupirsi ogni giorno, non in modo coerente almeno rispetto ad una vita classica e conforme ad un regime societario. È come se l’abitudine dovesse per forza sopraggiungere e tramutarsi infine in quel sentire dalle tempistiche così curiose, la noia.
Sì, l’abitudine sembra una condanna, una lente scura che si pone sui nostri occhiali ogni qual volta che vengono colorati da un qualcosa di appena visto, un filtro che appiattisce quell’unica cosa che possiamo dire con certezza di possedere: la nostra vita. Ma facciamo un passo indietro, torniamo per un momento all’inizio di questo elaborato, dove abbiamo appositamente lasciato causa e in coincidenza soluzione di questo tema. Se, caro lettore, non hai individuato questa chiave non temere: mi riferivo alla quotidianità. In quella comoda sfera mono climatica dove tendiamo a chiuderci, onde evitare di doverci rapportare con il mondo intero e poter trattare solo delle faccende che direttamente ci riguarderanno, abbiamo rinunciato a quella piccola fetta d’infinito che spetta ad ognuno di noi, in quanto parte dello stesso.
L’abitudine non è un male che deve necessariamente porsi tra noi e quel bello che tendiamo a scoprire, ma una nostra imposizione rispetto ad una chiusura che ritenevamo obbligatoria. Se casa mia sono le quattro mura che delimitano la mia proprietà sarà assai facile abituarmi alla stessa, ma se casa mia dovesse invece diventare l’intero universo allora mi servirebbe decisamente un bel po’ di tempo per poter dire di conoscere a non trovare più nulla di nuovo in questa.
Se ci ragioniamo come piccoli enti in una piccola parte del mondo, dedicati a ciò che ci riguarda e null’altro, come possiamo pretendere di riscoprire attraverso il mondo stesso quello che davvero ci riguarda? Siamo davvero così presuntuosi da ritenere di poter cogliere ogni singola minuzia di quel sole che tramonta ogni giorno? Non ci sarà mai un tramonto identico ad un altro, perché non sarà mai la stessa persona a guardarlo. Non possediamo quasi nulla, eppure ci appartiene tutto, perché limitarci dal poterlo cogliere? Ogni giorno in un modo o nell’altro sarà diverso, avrà una nuova intuizione o un qualcosa di apparentemente vecchio solo rispetto all’attitudine con cui lo affrontiamo.
Nell’attendere un responso rendiamo il nostro agire una conseguenza delle cose anziché un motore delle stesse, fondando la nostra quotidianità sull’attesa e viviamo l’azione come una risposta anziché un motore. Non attendiamo di scoprire un qualcosa per rompere quello spettro abitudinale che sembra tanto tormentarci, piuttosto cerchiamo quel qualcosa, viviamo la scoperta come un obiettivo e non un incidentale.
Ogni giorno è nuovo per chi non è mai vecchio, e l’unico modo per evitare quella vecchiaia è ricordare che si tratta solo ed esclusivamente di una scelta: essere parte della vita stessa, e non vivere solo in parte.