É possibile mutare la propria condizione sociale? I Malavoglia attraverso l’idealismo fichtiano
Attraverso le considerazioni puramente idealistiche della scuola tedesca, è nostra intenzione in questa sede affrontare le tematiche della irrequietudine per il benessere e dell’ideale dell’ostrica
Considerazioni sul progresso degli sconfitti nella civiltà de “I Malavoglia”, opera appartenente al “Ciclo dei vinti”, la mai portata a termine raccolta Verghiana, contrapposte all’idealismo Fichtiano nella volontà di potenza
Attraverso le considerazioni puramente idealistiche della scuola tedesca, è nostra intenzione in questa sede affrontare le tematiche della irrequietudine per il benessere e dell’ideale dell’ostrica, nella costante fuga da ciò che è già stato determinato, affrontando quella parete illusoria che tanto limita un soggetto dall’uscita di uno stato di minorità, quasi sempre di mera auto imposizione.
I Malavoglia
I Malavoglia è un romanzo scritto da Giovanni Verga, padre del Verismo italiano, e pubblicato nel 1881, che narra le disgrazie di una famiglia nell’esasperazione di ogni negatività che gli si presenti, seguendo in linea assolutistica la legge di Murphy.
Tali vicende trovano la loro contestualizzazione a Trezza, immediatamente dopo l’unità d’Italia, che tramite la sua politica chiusa ed ideologicamente inamovibile trova il giusto vivaio per quelle che saranno le asperità che la famiglia di Padron ‘Ntoni andranno ad affrontare, nella perpetua ricerca dell’uscire dallo stato che la vita aveva loro imposto. Per quanto l’effettivo protagonista del romanzo sia la famiglia Malavoglia, trova grande valore all’interno dello stesso l’aspra descrizione del contesto di una civiltà assolutamente legata ad una morale di possedimento, dove la “roba”, nella sua quantità, altro non è che la classificazione gerarchico-sociale di ogni individuo.
Ed in un contesto come questo, la ricerca di un miglioramento della propria condizione, che tanto oggi rappresenterebbe un obbligo morale, è invece avvicinata ad un concetto di allontanamento dalla propria natura, quanto siamo è, effettivamente, quanto eravamo destinati ad essere, e in nessun modo sarà possibile fuggire dalla mediocrità a noi imposta. E sarà proprio questa irta sentenza, codificata in morale, l’insegnamento che l’autore intenderà lasciare attraverso la sua opera.
Quella che dovrebbe essere una difficoltà è rappresentata come una impossibilità naturale, il bene alla quale possiamo puntare è solamente quello che, per nascita, possediamo. Una visione Beckettiana che, come si evince dall’attesa per Godot, altro non è che una snervante aspettativa di un qualcosa che non arriverà mai, e che ad ogni passo in avanti ci riporterà di due indietro.
L’idealismo
“L’uomo può ciò che egli deve, e se dice: “Io non posso” segno è che non vuole.” – Johann Gottlieb Fichte
Ma ad una corrente così nullista è giusta un’opposizione che ricalchi la natura umana della volontà di potenza. L’idealismo in filosofia è una visione del mondo che riconduce totalmente l’essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà, ritenuta il riflesso di un’attività interna al soggetto.
Nell’idealismo è generalmente implicita una concezione etica fortemente rigorosa, nell’idea Fichtiana ove è dovere morale dell’uomo il conformare il mondo al principio ideale da cui esso ha origine, privilegiando la dimensione ideale rispetto a quella materiale, affermando così che l’unico vero carattere della realtà sia di ordine spirituale. La ragione ha la capacità di mettere a tacere la sensibilità e quindi ci riconduce alla libertà.
Compito dell’individuo è quello di guidare l’umanità verso questo perfezionamento infinito; condurre gli altri alla consapevolezza dei propri bisogni, ad una conoscenza dei doveri spirituali e morali dell’uomo. In questo tipo di concezione dell’essere morale, lo risulta inutile, se non sottoforma di uno strumento ma non un fine, un mezzo per far si che l’uomo diventi sempre più libero, nella convinzione che questa trasformazione sia processuale, che ognuno possa adempiere al suo scopo, o più individualisticamente parlando, possa essere artefice del suo stesso bene.
La possibilità del divenire nella volontà di potenza
La volontà di potenza è la volontà che ricerca e brama sestessa, una volontà impersonale intesa come perpetuo rinnovamento dei propri valori, secondo cui l’uomo deve continuamente aggiornare il suo punto di vista e mai fissarsi su una presunta verità definitiva, così come potrebbe essere una accettazione della propria condizione sociale, e una, oramai più presunta che certa, impossibilità dal fuoriuscirne, tipicamente Verghiana.
La volontà di potenza non si afferma come desiderio concreto di uno o più oggetti specifici, ma come il meccanismo del desiderio nel suo stesso funzionamento incessante: il desiderio vuole continuamente e senza sosta il suo stesso accrescimento, dato che il desiderio è pulsione infinita di rinnovamento. E questa pulsione evoluzionistica, progressista, è nella sua possibilità una realtà umana a tutti gli effetti, l’uomo è la sua stessa volontà, e nella sua volontà è uomo.
La fuoriuscita da uno stato di minorità, decontestualizzando lo stesso, è assolutamente possibile, ed è costante in ogni sfaccettatura sociale, la volontà è nel suo stato pura potenza, crescente e determinate, nonché fautrice, d’ogni perseguimento di quanto desiderato. La realtà, volendo contrastare il precedentemente citato Beckett, non è attendere che il signor Godot arrivi, nella sua provvidenza, ad elevare e rimpannucciare le avversità da noi vissute, ma prendere coscientemente la volontà di migliorarsi, di raggiungere quanto voluto, di attingere a quella capacità tipicamente umana di perfezionare, e divenire noi stessi Godot.