Per la ricetta di oggi prendiamo 80 anni di conflitti arabo-israeliani, li disossiamo, ne facciamo una poltiglia, li gettiamo in padella e cuciniamo ad alte temperature. Così avremo un delizioso pot-pourri di storia, geopolitica e diritto internazionale da servire sui nostri social.
Ironie a parte, non riesco a comprendere come un argomento così delicato, persistente da quasi un secolo e lordo di sangue possa essere semplificato e ridotto a tifo da stadio. Porre le bandiere sui propri profili, ricamare propaganda e tifare per la sconfitta del “cattivo” – come se in guerra esistesse la divisione in buoni e cattivi – sono l’esatta sintesi della scarnificazione degli eventi, della più elementare dicotomia tra chi ci sta simpatico e chi no.
Come tutte le guerre, questa è una storia di odio, di discriminazione, di morti. È una storia di partizioni di territorio, di accordi falliti, di controllo indebito, di segregazione e poi di ultranazionalismo e terrorismo. Per questo trovo discutibile esporre la bandiera israeliana su Palazzo Chigi quando Israele, attaccando la Striscia di Gaza, viola il diritto internazionale e trovo aberrante chi tace su Hamas. Non si tratta di essere equilibristi ma equilibrati.
Come sempre i civili scontano il peggior epilogo mentre noi tifiamo da casa, ci sentiamo forti perché abbiamo avuto la fortuna di vivere nella parte “giusta” del pianeta. La sensazione però è che con il conflitto in Ucraina e poi con quello in Palestina l’Occidente si sia rivelato un gigante dai piedi d’argilla, un colosso in balìa di un tornado di sangue.