Il deserto dei Tartari: la guerra come compromesso che sta tra uomo e animale
Considerazioni sulla natura della guerra attraverso “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzanti e le filosofie Illuministe di Kant e Montesquieu, in una analisi su come quest’ultima stia su di un cavo, sempre più debole, che connette l’uomo alla sua controparte animale.
“Guerra” è quella parola che più istintivamente associamo, assieme alla sua controparte amorosa, all’uomo.
Spesso immaginiamo l’uomo come un burattino in costante tensione tra due fili, Eros e Thanatos, due fili che da soli sono capaci di determinare un’intera specie nella sua natura più profonda. Ma come spesso accade in questi casi, la tensione che mantiene la quiete di tali impulsi è incerta, non v’è mai quella profonda certezza che l’uno possa prevalere sull’altro, che l’uno possa rinunciare, nella sua attuazione, al suo capo opposto.
Come già successo in nostre trattazioni di questo tipo, che trattano argomenti così chiari ma al contempo così vasti, sarà nostro interesse far ricadere l’indagine non tanto sul fenomeno in sé, bensì sulla sua natura.
IL DESERTO DEI TARTARI
“Il deserto dei Tartari” è un romanzo antistorico di Dino Buzzanti il quale, pubblicato nel 1940, lo consacrò come uno dei più influenti scrittori del Novecento. Leggendo il libro si noterà subito come l’aria militare che si respira tra le sue pagine sia solo un pretesto, ma al fine di meglio far comprendere il perché di questo curioso parallelismo con la guerra in sé ne tratteremo brevemente la trama.
Il romanzo segue la vita dell’ufficiale Giovanni Drogo e del suo servizio nella Fortezza Bastiani. Egli, come gli altri soldati, conduce una vita ciclica e regolare, in costante attesa d’un nemico, rappresentato dai Tartari, al fine di poter esercitare il suo ruolo militare e divenire,tramite la tanto agognata battaglia, un eroe.
La vita del tenente, ormai insignito a maggiore e vice comandante, termina in una circostanza apparentemente triste, solo in una fosca stanza, ma conscio d’aver compreso che il vero compito della vita che conduceva non era morire in battaglia, ma affrontare la morte stessa nel più decoroso dei modi, allontanandosi dalla paura che questa per sua natura porta.
Da questa trama così Beckettiana vogliamo estrapolare, con quella solita forzatura che la filosofia tanto magnanimamente ci concede, la sola morale.
LA GUERRA “ILLUMINISTA”
Con l’avvento dell’Illuminismo, così come capita ogni qual volta che un momento storico prevale su quello precedente negli ideali, il concetto di guerra è stato “rianalizzato”. Sotto la luce rivelatrice del lume della ragione, Montesquieu afferma che la guerra è sì parte di quella natura animale dalla quale l’uomo non è mai stato veramente capace di distaccarsi, ma anche che in egli viva al contempo una natura più pacifica capace di prevalere sulla prima.
In termini ampiamente Aristotelici il filosofo di La Brède ritiene che il punto d’inizio e di sfogo della natura belligerante dell’uomo sia il suo “associarsi”. E’ nella società che l’uomo trasporta il suo senso di autoconservazione e si fa’ forte della altrui debolezza. Kant non allontana troppo il suo pensiero da quello dell’illustre collega francese, aggiungendo che tale status si supererà solo con l’arrivo delle sue conseguenze, le quali convinceranno l’uomo della negatività di tale operato.
Tali visioni non sono state propriamente rispettate nel corso dei secoli, basti pensare come dal pensiero illuminista del superamento dell’età della guerra tramite quella del commercio l’uomo abbia solo trovato nel commercio un ulteriore motivo per far battaglia.
L’UOMO NELLO STATO DI UMANITÀ
L’uomo è certamente il miglior derivato del regno animale, essendosi presentato come quell’unica creatura ad aver ripudiato le sue selvagge origini in favore d’un vivere più “razionale”. Ma dove questo tanto pretenzioso raziocinio trova effettivamente sfogo?
Dove davvero l’uomo è stato capace di erigere un muro tra sé e le fiere dalla quale tanto si è allontanato? A tali domande si vorrebbe di solito rispondere con precise risposte inerenti alla natura della guerra, uno degli ultimi legami tra uomo e bestia, con attenzioni ben dedicate alla differenza di quanto l’uomo abbia fatto rispetto ad una qualunque altra creatura.
La risposta più utile, coerente ed addirittura necessaria è invece un brevissimo “non ne ho idea”. La filosofia ha colpevolizzato per tale carenza razionale lo stato di natura, la società e l’autoconservazione, ha ricercato colpevoli per un reato che è naturale aver commesso, incolpando la natura stessa. Ma il distacco di cui abbiamo precedentemente trattato non è stato trattato casualmente, perché è attorno ad esso che vuole vertere la natura di quest’ultima “analisi”. Nella sua capacità di farsi grande attraverso la natura che l’ha creato, di questo sapersi alienare dal mondo animale di cui ha sempre fatto parte, l’uomo ha dimenticato per arroganza e distrazione che la pretesa di non essere più animali va’, per esser tale, rispettata in ogni punto.
Il vero interesse non dovrebbe esser quello di dare un motivo alla guerra, di spiegarne la natura per meglio poterla comprendere, poiché si tratta di un male superfluo e non necessario, con la quale non dovrebbe esser necessario convivere. Le domande che desiderano risposte sono quelle che in un modo o nell’altro obbligano ad una convivenza con la materia questionata, ma la guerra nella sua futilità non vuole essere interpellata, quella stessa forza che ha così egregiamente creato un confine tra uomo e animale dovrebbe essere utilizzata per rendere tale pretesa veritiera, nessun’altra forza desidera essere messa in atto al fine di combattere un nemico così sterile.
L’uomo non è guerra, amore o animale, l’uomo è esattamente ciò che desidera essere, nel momento e nel contesto in cui decide d’esserlo.
La pace non dev’essere uno stato da raggiungere, un qualcosa da ottenere tramite il superamento d’una natura ostile, perché è proprio quando ci si chiede se un qualcosa è possibile che quel qualcosa inizia ad allontanarsi dall’obbiettivo della fotocamera dell’umano progredire, che con pazienza fotografa ogni passo fatto.
La guerra non è un superamento in attesa di scatto, ma una fotografia necessaria d’un male così sciocco da non voler essere sorpassato, bensì dimenticato.