E tutti noi siamo responsabili della sua morte!
La lunga e toccante omelia pronunciata dall’Arcivescovo di Napoli durante il rito funebre celebrato il 7 settembre nella Basilica del Gesù Redentore nella omonima piazza, ha lasciato una ferita profonda nell’anima dei partecipanti a quel rito, presenti fisicamente alla celebrazione o collegati tramite i canali televisivi: una folla incredibile di persone che hanno pianto, unitamente ai familiari, il giovane assassinato.
La morte di Giovanni Cutolo, giovane musicista, è una ferita profonda che sanguinerà per molto tempo, non solo nel cuore dei fedeli, ma anche in quello di tutte le persone per bene che hanno pianto, insieme ai familiari, il povero giovane assassinato.
Vittima di un giovinastro, a sua volta vittima di quella incultura che lo ha reso insensibile a qualsiasi tipo di socializzazione che non sia quella della banda di “guappetti” da strapazzo, dei giovinastri della paranza, ispirati dal culto della violenza gratuita e insensata.
Un giovinastro che “improvvisamente” (?) vede comparire nella mano un’arma, di ignota provenienza, che spara tre colpi, ammazza il giovane, poi sparisce e, alle tre di notte, viene arrestato mentre sta giocando tranquillamente a carte, come se nulla fosse accaduto!
Un giovinastro con una fedina penale non proprio immacolata; pochi anni di vita trascorsi ai Quartieri Spagnoli, qualche precedente e una condanna alle spalle per tentato omicidio: è successo quattro anni fa, quando aveva solo 13 anni, per l’età non era imputabile il che indusse i Magistrati a fargli intraprendere un percorso riabilitativo di tre anni che lui “avrebbe” superato, ma l’assassinio di Caputo dimostra il contrario.
Non pochi interrogativi dobbiamo rivolgere a noi stessi, prima come uomini, poi come cronisti.
Come uomini dobbiamo fare un esame di coscienza ispirandoci all’omelia dell’Arcivescovo Battaglia: ci sentiamo veramente esenti da responsabilità, o pensiamo che alla morte di Giogiò abbiamo tutti noi inconsciamente contribuito?
Non abbiamo nessun dubbio o scrupolo sul fatto che nella mano dell’assassino sia comparsa un’arma che poi ha ucciso?
Non sono state anche la nostra indolenza e la nostra ignavia causa della morte di Giogiò?
Giovanbattista Cutolo era un giovane di circa 24 anni, appassionato di musica, che faceva parte della Orchestra Young dell’Accademia musicale napoletana Scarlatti, ed era già una celebrità per la sua bravura, tant’è che, nonostante non fosse ancora diplomato, era già richiesto da più orchestre in varie parti d’Italia, richieste che il giovane aveva respinto prima per non allontanarsi da Napoli, poi per poter continuare a studiare e a perfezionarsi per conseguire il diploma di Maestro di corno.
Comunque un giovane in carriera, la cui vita è stata stroncata da quel giovinastro di circa 17 anni il quale, per una banale lite scaturita dal parcheggio di un motorino, sembra fra l’altro che non fosse nemmeno suo, ha pensato di risolvere il problema armandosi ed esplodendo tre colpi di pistola, uno dei quali alle spalle, che hanno freddato il giovane musicista.
E lascia riflettere un’altra circostanza, cioè che l’assassino sia stato trasferito dal carcere minorile napoletano in un’altra struttura di altra regione, perché il giudice ha ritenuto che se fosse rimasto a Nisida, sarebbe stato onorato come un “boss” e avrebbe potuto costituire in quel carcere un nuovo gruppo criminale.
Questi i nudi e crudeli fatti di cronaca.
Rileggendo il testo che Arcivescovo Domenico Battaglia ha letto durante la sua lunga e appassionata omelia, colpisce la sua richiesta di scuse alla vittima perché, interpretando i sentimenti della folla, si è sentito anch’egli colpevole di non aver saputo impedire questo ulteriore delitto del quale ancora un a volta c’è da un lato una vittima innocente, e dall’altro c’è un giovanissimo assassino che, forse anche a causa della oramai generalizzata cultura della violenza, si è trovato coinvolto e, nonostante la banalità della controversia, non ha saputo fare altro che armarsi e sparare.
Ma siamo certi di non essere anche noi responsabili di questo ennesimo assassinio?
Da esseri umani inseriti in questa società non possiamo non sentirci anche noi colpevoli di ciò che è ancora una volta accaduto, perché, interrogandoci, probabilmente ricordiamo di essere stati troppo volte ignavi di fronte a episodi di intolleranza, di esserci forse troppe volte girati dall’altro lato fingendo di non aver visto azioni trasgressive che tante volte la strada ci offre.
Ma c’è un ulteriore aspetto della vicenda che, da cronisti e osservatori della realtà, non possiamo nasconderci.
Possiamo dire senza pericolo di essere smentiti che anche la cultura abbia influito negativamente sul comportamento degenerativo di questa società malata?
Questo l’Arcivescovo Battaglia non lo ha chiaramente detto, ma noi faremmo torto alla nostra sensibilità e alle nostre conoscenze se ce lo nascondessimo.
E la domanda vogliamo rivolgerla ad uno dei personaggi più noti della cultura meridionale, Roberto Saviano, che qualche decennio addietro (esattamente nel 2006) pubblicò il celebre romanzo “Gomorra” scoperchiando con esso quel vaso di Pandora che per troppi anni era stato tenuto ben chiuso.
Qui non parliamo di responsabilità diretta, nel senso che Saviano abbia contribuito alla morte di Giogiò ed a quella di tanti altri giovani vittime di incidenti analoghi.
E fu un’opera meritoria, il romanzo di Roberto Saviano, perché rivelò al paese cosa fosse esattamente la delinquenza organizzata, “Gomorra” diede all’autore un successo più che meritato.
Ma la cosa non si fermò al libro e alla sua trasposizione cinematografica, che già erano bastate a proiettare l’autore sulla scena mondiale.
Quante altre serie televisive si sono ispirate a quell’opera?
A noi risulta essere state tante, non tutte di buona qualità, ma tutte dannose per la gioventù ignorante alla quale appartiene l’assassino di Giogiò.
Quanti di essi si sono ispirati proprio a quegli sceneggiati, proiettati per anni, assumendo atteggiamenti simili a quelli degli “eroi” della Tv, atteggiamenti non solo nella postura fisica, ma anche nella vita e nei comportamenti quotidiani?
Può Roberto Saviano non sentirsi in parte responsabile di quello che è avvenuto e che potrebbe ancora accadere?
Saviano avrebbe reso un migliore servizio a Napoli se si fosse fermato al romanzo e alla sua trasposizione cinematografica.
Ma non ha voluto fermarsi.
Non crede, ora, di avere anch’egli una parte di responsabilità per l’assassinio di Giogiò e, di riflesso, per le conseguenze sulla vita del suo assassino?