C’era una volta il genere poliziesco italiano, erano gli anni ’70 e ’80 dell’antico novecento e registi come Umberto Lenzi, Marino Girolami, Fernando Di Leo e persino Steno declinavano il genere producendo perle che il tempo non ha ancora offuscato.
Sono passati molti anni di silenzio e ancora aspettiamo gli eredi di quella generazione di cineasti.
Eppure di investigatori, assassini, indagini e misteri la letteratura italiana continua a sfornarne in continuazione. E senza scomodare gli autori di culto come Scerbanenco, Milano è teatro perfetto per ogni noir sufficientemente cinico. Basta solo dimostrare di aver appreso la lezione.
Andrea Di Stefano ha le stimmate del fuoriclasse, lo si intravede nel suo primo lungometraggio: “L’ultima notte di Amore”, film uscito nel marzo scorso con un eccellente, egocentrico e a tratti fragile, Pierfrancesco Favino (sempre lui, ancora lui!) e un pugno di ottimi attori intorno.
Finalmente Milano dunque, nera, insensibile e crudele, pronta a diventare Chicago, Pechino o restare semplicemente Milano.
Favino, anzi Franco Amore, scrive il discorso per la festa del suo pensionamento, ma non ha fatto i conti col destino che gli sta confezionando un’altra cerimonia. Mai fidarsi di chi promette “soldi facili”, dei cinesi ma soprattutto dei parenti. E mai dare nulla per scontato: chi non ha mai sparato un colpo in 35 anni di onorato servizio, potrebbe farlo proprio l’ultimo giorno.
Il film ruota tutto intorno ad un’unica scena dove Di Stefano convoglia l’intera tensione che avvolge la storia. Tutto, o quasi tutto, avviene tra il giallo delle lampade ai vapori di sodio di una galleria sulla tangenziale. Segno che, quando la mano è educata, non servono particolari intrecci e nemmeno effetti speciali.
L’azione è credibile, il tempo, quasi reale, è sufficientemente ansiogeno, Milano parecchio spietata e il regista, che non smarrisce mai il ritmo, talvolta inserisce dettagli nei quali non è complicato riconoscere quella sua giovanile collaborazione con Dario Argento.
Finale banale il giusto, ma il meglio è nel mezzo.
Basta così. Tutto è tremendamente così asciutto che basterebbe dirne un particolare per rubare fette di sorpresa allo spettatore.
Unica concessione, pardon consiglio: non affezionatevi troppo a nessuno dei protagonisti. E’ una vecchia regola del noir, ma è sempre valida.
E godetevi le musiche, perfette, di Salvi Pulvirenti, valgono quanto il film.
E il film, fidatevi, vale.
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