“L’intelligenza artificiale potrebbe decretare la fine dell’umanità”. Non è l’incipit di un’opera apocalittica ma sono le parole dei padri fondatori dell’intelligenza artificiale stessa.
Aumento della disoccupazione, sfiducia nelle istituzioni e sgretolamento del tessuto sociale, saranno i tre cavalieri dell’apocalisse. I computer ragioneranno al posto nostro, i robot faranno – e meglio – i nostri lavori e i deepfake, ossia la falsificazione di video attraverso reti neurali artificiali, saranno la versione potenziata delle fake news. Un mondo governato dal caos in cui l’umanità sarà relegata sempre più a margine dell’esistenza, fino al suo totale collasso.
La teoria evoluzionistica di Darwin parla chiaro: solo chi combatte, resiste e – soprattutto – si adatta ai cambiamenti può sopravvivere. L’uomo ha – quindi – il destino segnato? Esiste uno strato della psiche umana che – forse – potrà aiutarci a resistere.
Freud definì “perturbante” la sensazione di spaesamento e confusione verso un qualcosa che ci è familiare. Masahiro Mori, ingegnere esperto di robotica, riprese questo concetto coniando l’espressione “uncanny valley” (valle perturbante) in un suo saggio scritto nel 1970. Egli affermò che più un qualcosa è somigliante all’uomo e più ne siamo attratti. Superata una certa soglia di realismo – però – in noi spettatori si verifica un senso di repulsione, favorendo un certo disagio. Questo stato dell’animo è l’uncanny valley.
Si immagini un robot perfettamente somigliante ad un uomo; seppur estremamente realistico, percepiamo in esso delle micro-differenze. Quelle minuscole difformità ci inquietano, ci perturbano per l’appunto. All’epoca la robotica era agli esordi ma oggi – nell’era dell’intelligenza artificiale – ci confrontiamo con animazioni 3D, con la realtà virtuale e con robot iperrealistici.
In definitiva, questo senso di repulsione è la nostra chiave per sopravvivere. È l’atavico impulso alla sopravvivenza che ci consentirà – qualora si verificasse l’infausta previsione – di tenerci ad un minimo di distanza di sicurezza e garantirci – ancora per un po’ – il controllo della nostra specie.