Recensione del film “L’esorcista del Papa”: posseduto dal demone della bruttezza
Da quel lontano 1973, anno in cui uscì nelle sale “L’esorcista”, si sono susseguiti una serie di film su possessioni ed esorcismi. Talmente tanti da poter dar vita ad un sottogenere dell’horror. Alcuni di questi meritevoli, molti altri no. Decisamente il capolavoro di Friedkin rimane intoccato, caposaldo del cinema dell’orrore.
L’ultimo film del genere, uscito nell’aprile di quest’anno, è “L’esorcista del Papa”. La regia è di Julius Avery e con un Russell Crowe nei panni di Padre Gabriele Amorth. La pellicola si ispira liberamente (anche troppo) alle memorie del capo esorcista.
La storia si svolge tra il Vaticano e la Spagna dove una famiglia, composta da una donna e i suoi due figli, eredita dal marito defunto un’antica magione ove aleggia un mefistofelico mistero. Il figlio viene posseduto da un’entità diabolica e per questo Padre Amorth viene inviato in quel luogo per espressa volontà del Papa (quest’ultimo interpretato da Franco Neri).
La pellicola è densa di cliché: dalla figlia adolescente in conflitto con la madre, al figlioletto chiusosi nel mutismo dopo aver assistito alla morte del padre, al prete minore – che fa da spalla al capo esorcista – con zero esperienza in materia di possessioni, fino all’intramontabile villa infestata. Il tutto condito da un’atmosfera lugubre, con cenni da film action in stile anni ’80: sotterranei, trappole, misteri alla Indiana Jones ed intermezzi ironici del protagonista.
In effetti è proprio Russell Crowe – con la sua personalissima interpretazione di Padre Amorth – a donare lustro a questo B movie, di fatto il film gode del carisma del “fu” Massimo Decimo Meridio. Sebbene la pellicola non dia spunti biografici riguardo la figura di Padre Amorth (se lo avessero presentato come Don Calogero non sarebbe cambiato nulla nell’economia del film), Russell Crowe è un faro in un caotico marasma di idee tra l’horror demodé ed il grottesco.
In conclusione L’esorcista del Papa è una miscellanea di generi ed estetismi, cliché e facilonerie al servizio di un film che – a modo suo – tiene incollati sulla poltrona tra il “chissà ‘sto stupido dove vuole arrivare” e l’intramontabile attrazione per il kitsch.