A colloquio con Matteo B. Bianchi autore di “La vita di chi resta”: «Non si può superare il dolore ma si può tornare a vivere»
Matteo B. Bianchi, scrittore ed autore di programmi televisivi e radiofonici, nonché voce di Copertina, podcast di Storielibere.fm, è l’autore di “La vita di chi resta” , edito da Mondadori a gennaio 2023.
Il libro, non un romanzo, non un’autobiografia né un diario, racconta frammentariamente la vita dello stesso Matteo, involontario protagonista di uno dei traumi più scioccanti che si possano provare: il suicidio del proprio ex compagno. Si tratta di una esperienza vera, personale, ma che attraverso la scrittura viene tramutata in storia nella quale qualunque “sopravvissuto”, così è chiamato chi resta, possa riconoscersi. Testimonianza mi sembra il miglior modo per definirlo.
Raggiungo Matteo B. Bianchi al telefono poco prima di una presentazione del suo libro. Io sono tesa, come spesso mi capita prima di una intervista, ma in questo caso ho un motivo in più: l’argomento di cui parleremo è talmente delicato, talmente intimo, che ho paura che qualsiasi domanda possa risultare inopportuna o, al contrario, banale.
È lui a stemperare l’atmosfera, a mettermi a mio agio, mi dice di non preoccuparmi, mi trasmette confidenza. Mi rendo conto che lui forse è più pronto di me. Così decido di partire domandandoglielo, traendo spunto proprio da un episodio narrato nel libro.
In La vita di chi resta, ad un certo punto, quando stai già in fase avanzata della scrittura, ti si domanda se sei proprio sicuro di volerlo fare, se sai cosa ti aspetterà. Ti sei ritrovato pronto?
All’inizio non è stato facile poi è diventato il mio quotidiano. I primi incontri sono stati difficili emotivamente, mi veniva da piangere, non riuscivo neanche a rispondere. Poi mi sono assestato. Ho imparato a fare i conti con l’aspetto emotivo e sono molto tranquillo. Così come sono stato pronto a parlarne sulla pagina, così ora sono sereno anche parlandone di persona.
A proposito degli incontri di persona, ti viene in mente qualche domanda che ti ha colpito? Che non ti aspettavi?
Per risponderti faccio una premessa. Il libro si chiama La vita di chi resta perché vuole raccontare la vita dei sopravvissuti dal momento in cui hanno subito il trauma in poi. Di conseguenza, quando mi scontro con domande insistenti sul giorno della tragedia o su altri aspetti morbosi, quelle domande mi danno fastidio. Del resto anche nel libro ho fatto delle scelte precise, di certi particolari di quel giorno ho parlato dopo 50, 100 pagine, non mi piace che invece la prima domanda riguardi quello. Inoltre, credo ci sia un senso di opportunità nel chiedere alcune cose anziché altre. Mi infastidisce che non sia rispettata questa opportunità.
Hai scritto questo libro venticinque anni dopo la tragedia. A quell’epoca scrivi che il consiglio forse più sensato che avesti venne da uno scrittore che ti consigliò di prendere appunti. Li hai presi poi quegli appunti? Ti sono serviti?
Per abitudine non prendo appunti. Ragiono sulle cose e poi mi metto a computer quando voglio scriverlo. Non giro con un taccuino segnando i pensieri perché ritengo che se una idea è buona, allora mi rimane, non c’è bisogno di annotarla, e se non mi rimane, vuol dire che non era tanto buona. In questi anni, è stato come se in me avessero convissuto due anime., quella personale, che voleva superare la tragedia, e lo scrittore, che invece voleva registrare, cercare di tornare ossessivamente su certe cose per non dimenticarsele. Come persona ho affrontato questo percorso anni fa, come scrittore ho impiegato 22 anni. C’è una specie di scissione davvero.
A tal proposito, mi viene da chiederti cosa distingue uno scrittore da uno che scrive per se?
Ti rispondo dicendoti che molti mi chiedono se scrivere questo libro sia stato terapeutico. È stato terapeutico? No, non lo è stato. La scrittura terapeutica resta per se stessi, tant’è che anche molti addetti ai lavori, psicologi, psicoterapeuti, consigliano ai pazienti di scrivere le loro esperienze e le loro emozioni. Uno scrittore, non scrive per sé, lo fa per chi lo legge. La vicenda non la si racconta a se stesso ma ad un pubblico di possibili lettori. Si tratta di fare un ragionamento letterario sulla propria vita. Non a caso, nel libro dico che è tutto vero ma che ho cambiato dei particolari e questo perché ho avuto l’esigenza di fare ordine in ciò che mi è successo per rendere più comprensibile ciò che nella vita reale è disordinato. A tal proposito, quando ho tenuto lezioni di scrittura creativa sul racconto autobiografico, mi è capitato, a volte, che gli studenti mi abbiano letto racconti che per me non funzionavano assolutamente perché la storia non risultava chiara. L’obiezione con cui mi si rispondeva è che le cose fossero andate proprio così. In realtà questo non c’entra nulla. Per scrivere un racconto autobiografico bisogna usare la vita come fosse una trama e le persone come personaggi.
A proposito di scissione, nel libro ne racconti anche un’altra: quella tra la persona che eri prima di quel giorno e la persona che sei diventato poi. Qual è la principale caratteristica che hai perso per sempre, cosa invece non ha mai smesso di appartenerti, cosa si è offuscato per tornare.
Ho perso per sempre l’innocenza. Prima di una cosa del genere non sai neanche cosa sia il dolore. Scoprirlo, ti cambia per sempre. Ho invece recuperato la leggerezza. Io tendo sempre a veder il mondo con ironia, con lievità. Ovviamente, era difficile, forse impossibile, farlo in certi momenti. A questo tipo di leggerezza son dovuto tornare, l’ho dovuta riconquistare. È una caratteristica che fa proprio parte di me, della mia personalità, dei miei gusti. Faccio un esempio: il mio artista preferito è John Waters che è considerato il re del trash in America, non a caso, tra l’altro, è una sua citazione quella all’inizio del libro. A me piacciono quelli che sembra che parlino di sciocchezze ma che invece sono profondi.
Parlando di profondità: hai attraversato gli anni da ateo, ed ora?
Sono la persona meno spirituale che conosco. Io cerco salvezza da un’altra parte, in particolare nei libri. Soprattutto nei confronti delle religioni organizzate ho sviluppato una ritrosia da anni. Sarebbe stato comodo avere un Dio a cui rivolgersi o da insultare in quel periodo ma me la sono cavata lo stesso.
Scrivi che i sei mesi successivi al suicidio di S. ti avevano invecchiato, hai recuperato un pò della gioventù o dell’entusiasmo?
Ho dovuto recuperare parecchie cose tra cui la gioia di vivere. Il compito di chi resta è proprio recuperare queste cose, una motivazione per tornare a sorridere. Come sopravvissuto sei dipendente dal dolore, ti senti anche in colpa, ti sembra irrispettoso non provarne. Non credo si possa parlare di superare il dolore, perché quello ti cambia per sempre, però si può tornare a vivere. Questo libro vuole offrire anche una via per capire che ad un certo punto da questa cosa ci si rialza. Mi scrivono decine e decine di sopravvissuti quasi tutti in termini di grande riconoscenza per averlo fatto.
Volevo chiederti se hai mai avuto desiderio di incontrare altri “sopravvissuti”, poi leggendo il libro ho scoperto di sì, che li hai incontrati anche.
Sì, nel libro lo dico, ne ho avuto il bisogno e li ho anche incontrati, certo. Ma ci tengo a rispondere precisando una cosa: nei mesi immediatamente successivi, ero disperato al pensiero di non conoscere nessuno nella mia stessa condizione, avrei voluto a tutti i costi trovare un gruppo di aiuto, condividere la mia sofferenza con altri nella stessa situazione. È stata una delle cose più dolorose vivere quei momenti da solo.
In effetti ti sei rivolto a dei gruppi di aiuto ma gli altri avevano dolori che ti sembravano ridicoli rispetto al tuo, tu eri l’unico che soffriva davvero. Il dolore incattivisce?
No, non incattivisce ma ti fa diventare arrogante. Io parlo proprio di arroganza del dolore. È vero gli altri mi sembravano ridicoli.
Il tuo era un dolore diverso quindi? Non siamo tutti uguali nel dolore?
L’esperienza di dolore del sopravvissuto è difficilmente comprensibile dagli altri. Quando perdi qualcuno per una malattia è straziante ma è un dolore puro, deriva dalla mancanza, dalla perdita. Con il suicidio, oltre a questo, si mescolano senso di colpa, rabbia, odio, amore, rimpianto, sentimenti inconcepibili insieme e strazianti. Per questo è molto importante il confronto con gli altri che hanno vissuto la stessa situazione. Chi non l’ha vissuta non capisce e non può capire. Con i sopravvissuti invece non si ha bisogno di spiegare, loro sanno, e questo è di grandissima consolazione.
Nel libro, come un flash, ricordi anche quella volta in cui un te ragazzino ha rischiato incoscientemente la vita,scosso da un dolore che sembrava insuperabile. A chiunque può accadere un blackout del genere?
Io penso che chiunque nella vita, anche in maniera idealizzata, faccia i conti con pensieri del genere: per una separazione col fidanzato, per una delusione professionale, si può essere sfiorati da pensieri di morte, si tratta di un pensiero che poi però va via. Un po’ come quando si pensa di voler mollare tutto e poi cambiar vita. Questa è una reazione estremamente “normale” e passeggera. Diverso invece quando un pensiero nero ti abita dentro e ti divora giorno dopo giorno.
Cosa consigli a un sopravvissuto?
Che bisogna trovare un motivo per andare avanti anche se è un percorso lungo,. Restare legati al dolore non ha senso né per se stesso né per chi non c’è più.
E a chi è vicino ad un sopravvissuto?
Consiglio di non avere paura. Di farlo parlare e di ascoltarlo. Non cercare di dargli delle soluzioni perché nessuno ce le ha, limitarsi ad ascoltare è già un buon inizio.
Ti vedremo qui da noi prossimamente?
Molto presto, vi anticipo che il 21 giugno prossimo sarò ospite al Salerno Letteratura Festival.