L’avvento dell’intelligenza artificiale: la mimesis mimeseos nell’arte
Considerazioni sul recente fenomeno dell’AI, intelligenza artificiale, in una breve riflessione su quei temi etici che sembrano minacciati dalla sua introduzione nelle quotidianità più ‘’umane’’ e la sua dicotomia ben celata dal suo superficiale utilizzo.
Se dapprima ogni secolo era definito da una particolare innovazione, un determinato evento che si faceva portavoce della sua epoca, con lo sviluppo di tecnologie sempre più capovolgenti, nel significato Copernicano del termine, il ventunesimo secolo si è fatto teatro di opere dalla portata così ampia da poter esser bandiera di ben più di un periodo storico.
L’Ai, l’intelligenza artificiale, è quella disciplina che ha come oggetto del suo studio la realizzazione di sistemi informatici “intelligenti’’ orientati alla simulazione di quelle che sono le capacità ed i comportamenti dell’umano pensiero.
Nel tentare di definire un fenomeno complesso ma al contempo così diretto nel suo intento, si potrebbe dire che l’Ai è quella serie di software che mirano ad emulare tutte quelle prestazioni che richiederebbero di norma l’estro creativo di un essere senziente, che si tratti di arti rappresentative e non, al fine di generare artificialmente opere che siano il più vicino possibile a quelle di fattura umana.
Che sia necessario porre una distinzione tra l’arte di fattura umana e quella di fattura artificiale è già di per sé una importante sintesi della particolarità dei nostri tempi, sempre più vicini ad un embrione di quelle realtà distopiche tendenzialmente raccontante in opere fantascientifiche.
In effetti l’intelligenza artificiale è una realtà che spaventa, sono stati molti gli esperti che si sono allontanati da tale disciplina ed hanno sentito la necessità di far ragguardare chi se ne occupa da ulteriori sperimentazioni, basti pensare alle recenti dimissioni da Google di GeoffryHinton, “padre dell’Ai”, accompagnando tale scelta con ulteriori ammonizioni sulla faccenda trattata.
Analizziamo ora separatamente quelli che sono, in una presuntuosa semplificazione, i due principali motivi di tale paura. Al primo di questi fa sicuramente capo quell’istintivo e naturale senso di preoccupazione che sovviene quando sentiamo la nostra quotidianità messa a rischio, il regresso fa paura certo, ma sicuramente non quanto il progresso.
A quelle paure che trovano fondo nell’utilizzo scorretto di tale innovazione, che sia a scopo bellico o di qualsivoglia volontà negativa, basti rispondere per analogia con l’esempio di Alfred Nobel, il chimico che al fine di agevolare il lavoro dei minatori inventò la dinamite, salvo poi pentirsene una volta osservato il non difficilmente prevedibile utilizzo che l’uomo fece del frutto del suo genio.
La natura di un qualcosa è definita dalla sua messa in pratica, anche un coltello da cucina può nella polivalenza che appartiene a tutte le cose trasformarsi nelle mani sbagliate in un’arma da taglio. Di fatti sarebbe più corretto deviare tale spavento concernente l’Ai sulla trascendentale e mai fuori luogo paura dell’uomo nei riguardi dei suoi simili, con la consapevolezza che non saranno gli strumenti che il male si serve per agire a farsi colpa del male stesso, ma la volontà che stava alla base del servirsi dei suddetti strumenti.
La seconda paura invece, sicuramente meno biologica e decisamente più antropocentrica, sta nell’attentato al primato creativo che l’uomo pone come suo distinguo dalle altre bestie, l’arte.
L’Ai si è già dimostrata capace di poter riprodurre fedelmente testi, poesie e arti visive, volti e discorsi. Attenzione ora all’utilizzo della parola riprodurre anziché della parola creare, scelta arbitraria e dettata da un aspetto molto spesso trascurato dell’intelligenza artificiale. Nella sua produzione l’Ai non crea, prende ispirazione e crea ibridi artistici che nascono dall’unione di numerose opere prese in esame dal software, fondendo tali opere in una chimera priva della firma dei suoi incidentali padri.
In termini Platonici potremmo definire tale produzione come MimesisMimeseos, quell’imitazione che prende spunto da un’altra imitazione. Sommariamente possiamo dire che Platone definiva le cose come imitazione delle cose originali, prime nella loro forma e rappresentate nel mondo tangibile come ricordo della loro vera essenza, e definiva conseguenzialmente l’arte come il tentativo di imitare una cosa che di per sé già ne imitava un’altra, sottolineando la sterilità e la non necessità di formare un falso che aveva come fonte di ispirazione un falso.
A ridosso di tale pensiero potremmo definire allora l’arte prodotta dall’Ai come un furto illegittimo di un furto legittimo, l’arte. Quando la società vuole introdurre una novità controversa nelle nostre vite è solita farlo in piccole dosi obbligatoriamente intrusive, mi spiego meglio: il primo approccio che abbiamo avuto con l’Ai è stato attraverso quelle applicazioni che permettevano di rappresentare un soggetto attraverso differenti forme artistiche, in una serie di quadri che rappresentavano chi ne faceva utilizzo, normalizzando e rendendo di fatto confortevole e semplice un qualcosa che nascondeva alle spalle una natura molto più complessa, come quel miele che Lucrezio riteneva necessario spalmare sull’amara medicina, con la differenza che stiamo trattando in questa sede di una medicina senza alcun valore curativo.
Nella sua forma più primordiale la paura è dettata dall’ignoranza e dalla mancanza di controllo, una natura primordiale che, attraverso la creazione di elementi sempre più complessi ai più e sempre meno controllabili, sembriamo aver dimenticato. Rispondiamo alla prima paura di cui abbiamo precedentemente trattato con la creazione di armi sempre più pericolose, trattando l’approvvigionamento bellico come un garante di pace, maggiore è la pericolosità di una guerra maggiore è la possibilità che questa venga evitata, come se la saggezza fosse sempre stata nelle corde dell’unico animale che ha inventato mezzi per l’agevolazione nella distruzione dei suoi simili.
Trattiamo la seconda paura invece, quella più profonda, come una incoerente visione filantropica della produzione artistica, se siamo così gelosi del nostro patrimonio artistico perché continuiamo ad investire su pennelli che non hanno bisogno di mani alla loro base per dipingere?
Nella dicotomia umana che ci separa in quei due estremi che sono amore e guerra risultiamo ormai imperterriti nello smarrimento dell’ago che segna la bilancia del nostro essere, adottando soluzione completamente contrastanti con quello che dovrebbe essere l’oggetto del nostro desiderio.
Cerchiamo di rendere le guerre più lente e l’amore più veloce, desideriamo far battaglia in prima persona e man mano cerchiamo sostituti per fare l’amore.
Siamo attratti da poli opposti facendoci scudo tramite quello che sembra un inevitabile processo di sostituzione che trova la sua ineluttabilità nell’incapacità di fermarci, e non nella presunta necessità che questo si attui.
È nell’ipocrisia collettiva che il dito viene puntato sul livido causato dalla pietra e non dalla mano che lo ha lanciato, in un tentativo di essere più uomini superando tutto ciò che prima era la definizione stessa dell’uomo, attendendo tragicamente di essere sostituiti da noi stessi.