Il freak show era tra le attrazioni più diffuse in epoca vittoriana, nel XIX secolo. Si trattava di spettacoli circensi i cui protagonisti erano persone con deformità: donne barbute, nani, uomini senza braccia e gambe o con sovrannumero di arti.
Adulti e bambini accorrevano per ammirare i cosiddetti “fenomeni da baraccone”.
Il fascino per l’esotismo giunse presso le corti reali: i freaks – i deformi – si esibivano persino dinanzi le teste coronate.
Nel 1932, il regista Tod Browning irruppe col film “Freaks”. Una pellicola maledetta, tagliata, censurata, discussa e controversa che proiettò sul grande schermo la vita di un gruppo di artisti con deformità che si esibivano in spettacoli itineranti. Il film è una feroce critica alla mostruosità di chi si ritiene “normale”.
Quarantotto anni dopo, nel 1980, fu la volta di “The Elephant Man”.
Un’opera toccante basata sulla vera storia di Joseph Merrick, l’uomo elefante: un ragazzo abbandonato dalla sua famiglia e costretto ad esibirsi nei freak show, fino a quando un medico, mosso da pietà, lo accolse per dargli una vita dignitosa.
Sebbene non sia neanche lontanamente pensabile pagare per assistere ad uno “zoo umano”, persiste ancora oggi un certo fascino contorto. I social e la tv presentano vite di persone con anomalie biologiche, così come esistono musei che espongono corpi che in vita erano afflitti da patologie anatomiche.
Perdura un’aristocratica attrazione nel grottesco, un atavico bisogno voyeuristico in ciò che è inusuale. La differenza con il passato risiede nella creazione di un alibi di ferro: si conosce il background, i sentimenti, le passioni dell'”altro”; si usa una terminologia adeguata per predisporre sé stessi all’empatia.
Così il diverso non è più così diverso. E ci si sente meno mostruosi.