La realtà oltre la sua rappresentazione: i viaggi di Gulliver attraverso Schopenhauer
Considerazioni sulla realtà velata di Arthur Schopenhauer attraverso “I viaggi di Gulliver”, celebro romanzo utopistico di Jonathan Swift
La realtà si configura a noi come un qualcosa di estremamente sensibile, la quale comprensione risulta immediata e sufficiente con l’utilizzo dei semplici sensi. Ma definire la realtà come un fenomeno meramente visivo e tangibile sarebbe come osservare il cielo credendo che l’orizzonte ne stabilisca la fine.
I fattori che determinano la realtà, spesso da noi intesa come specchio, non sono da cercare in via orizzontale, ovvero in quei sensi che noi riteniamo “materiali”, ma in linea assolutamente verticale, andando in fondo per quanto possibile in quella immane profondità che spesso è la vita.
I VIAGGI DI GULLIVER
“I viaggi di Gulliver” è un romanzo di Jonathan Swift dai tratti utopici, il quale arricchì tale utopia con una penna dall’inchiostro ampiamente satirico.
Pubblicato per la prima volta 1726, l’opera cela dietro un contenuto inizialmente ritenuto per le fasce d’età più giovani una feroce critica alla società e le convenzioni del suo tempo, cavalcando l’onda mossa dal successo de “Robinson Crusoe”, romanzo del quale abbiamo già avuto modo di trattare la settimana scorsa.
La trama è divisa in quattro parti, narranti delle odissee affrontate da Lemuel Gulliver, borghese dalle ampie conoscenze mediche e linguistiche. Ora, un sunto dell’opera in toto sarebbe assolutamente sterile ai fini della nostra trattazione, poiché non è nostro interesse affrontare il lato picaresco di tale scritto, bensì affrontare la celata profondità dello stesso. Attraverso episodi quale quello degli “Houyhnhnm”, cavalli razionali organizzati in una perfettamente composta società “umana”, l’autore presenta realtà ontologiche sopraffine, trattando di incredibili temi filosofici attraverso le figure del classico romanzo d’avventura.
Tramite la conoscenza di questi eccezionali equini, attanagliati dal pericolo rappresentato dagli “Yahoo”, creature pressoché identiche agli umani descritte come abbruttite e degeneranti, Gulliver arriverà al totale disprezzo nei riguardi della razza umana, ed una volta esiliato a causa della sua somiglianza con i terribili umanoidi, troverà conforto solo nel passare tempo con lo stalliere e la sua stalla, in una scena assai vicina all’esperienza di Nietzsche con il vetturino Torinese.
IL VELO DI MAYA
Ne “Il mondo come volontà e rappresentazione”, Arthur Schopenhauer pone in scena una delle più interessanti e controverse intuizioni filosofiche, quella de “Il velo di Maya”. Riprendendo i temi della saggezza indiana, arricchiti dalla razionale identità del soggetto puramente occidentale, Schopenhauer definirà la realtà come una entità coperta da una sua analogia illusoria, celata nei suoi tratti più puri e manifestata a noi come una sorta di “sogno”, tramite precise regole valide per tutti e insite nei nostri schemi conoscitivi dal momento della nascita.
A causa di questo velo metafisico ed illusorio, a noi umani non è concessa la corretta percezione di ciò che per l’appunto ci “avvolge”, condannando la nostra esistenza al cosiddetto samsara, che altro non è che il continuo ciclo di morte e di nascita.
In tale concezione l’uomo è maledetto dalla sua incapacità visiva, il quale non riesce a scorgere la realtà nella sua manifestazione originale ed è conseguenzialmente impossibilitato alla purificazione individuale e il raggiungimento del suo vero essere. Ma di tale realtà in effetti non possiamo neanche comprendere l’esito che questa potrebbe avere sulle nostre vite, basti vedere il caso di Gulliver e della disperazione che lo assale una volta resosi conto di non essere “degno” di aderirne, ove questa realtà è rappresentata dalla società degli Houyhnhnm.
L’INTERESSE DELLA REALTÀ
Se prima tramite il romanzo de I viaggi di Gulliver abbiamo osservato come un concetto di grande profondità possa essere confuso con un qualcosa di invece estremamente semplice e spoglio di significato, e attraverso Schopenhauer abbiamo giustificato tale attitudine dall’essere illusorio della realtà, è ora nostro intento districarci dalle differenti opzioni, concernenti la percezione del reale, che ci siamo ritrovati ad affrontare.
Il non essere perfettamente visibile della realtà mostra quest’ultima in un certo senso come una terribile limitazione, rendendo noi capaci di muoverci soltanto all’interno d’un qualcosa che è in primis non necessariamente veritiero, e in secundis rendendo tale movimento sterile, in quanto per l’appunto privo d’una consapevolezza che ciò che facciamo abbiamo un senso rispetto alla veridicità della nostra esperienza reale. Ma di fronte a questi termini potremmo trovarci a ritenere qualsiasi azione, se non giustificata come già detto da un contesto reale, inutile, e questo sarebbe un errore.
E’ la natura di tale errore va indagata proprio alla sua base, ovvero l’azione.
Dal primo sorgere del sole della vita l’uomo non è mai stato mosso nel suo agire da una certezza che potesse definire veramente tale, soprattutto perché come ormai ci è chiaro non esiste una realtà che possa essere dimostrabile nelle sue parti tutte. Il motore dell’agire dell’uomo è sempre stato la volontà di non cercare la realtà per quello che è, ma di volerla plasmare per quello che vorrebbe che fosse, di rendere in terra ciò che ci aspettiamo possa essere in cielo.
Se d’ogni cosa dovessimo porci il cruccio del sapere se quella effettivamente è, in che modo potremmo trovare la necessaria forza di farla diventare ciò che vorremmo?
Se proprio ci è impossibile strappare questo terribile velo che affligge la nostra percezione, ben venga allora decorarlo secondo l’immagine di ciò che ci piacerebbe celasse. Là dove all’uomo non è possibile porre un punto esclamativo a seguito d’un punto di domanda, che egli abbia sempre la capacità di rivedere tutta la punteggiatura, e di far sì che non sia l’uomo ad essere parte della realtà, ma la realtà ad essere parte dell’uomo.