Anatomia del soft power: dalla guerra in Ucraina, ai mondiali in Qatar, fino a Squid Game
Il concetto indica la capacità di uno Stato di sedurre e condizionare attraverso la propria immagine e la propria reputazione. Si contrappone
All’indomani della caduta del muro di Berlino e con l’epilogo della guerra fredda, il politologo e, all’epoca, vicesegretario della difesa statunitense, Joseph Nye, coniò l’espressione “soft power”.
Il concetto indica la capacità di uno Stato di sedurre e condizionare attraverso la propria immagine e la propria reputazione. Si contrappone all’“hard power”, ossia la coercizione attraverso l’uso della forza armata.
Il sogno americano è lo stendardo sfavillante che attrae il mondo da almeno due secoli. Dall’economia ai film, dalla democrazia ai fumetti, tutto questo concorre ad un’immagine affascinante degli USA.
La NATO, figlia degli Stati Uniti, seppur nel limbo tra l’hard ed il soft power, attua il “potere morbido”. La guerra in Ucraina ha ricordato ai cittadini di essere nella rete delle interdipendenze e, oltre questo, è evidente il coinvolgimento emotivo. Il punto è che, forse, neanche l’infausto evento del Ruanda di quasi 30 anni fa scosse così l’opinione pubblica occidentale.
Il calcio è un vettore potentissimo per il soft power. Gli sceicchi lo hanno ben capito: far giocare in una sola squadra stelle come Messi e Mbappé significa aumentare il numero di sostenitori, portare il mondiale di calcio in Qatar è stato il passo definitivo. E non deve sorprendere che gli sceicchi reagiscano con ghigno sornione ogniqualvolta tifosi di squadre europee si recano allo stadio con il loro caratteristico turbante e barba posticcia sul mento.
Nell’ultimo decennio una nuova fascinazione sta coinvolgendo il nuovo ed il vecchio continente. La Corea del sud ha rilanciato la sua immagine con film e serie tv di successo – Squid Game tra tutti – e con l’impennata di band musicali, il K-pop. Le nuove generazioni imparano la lingua coreana, mangiano il cibo coreano e sanno tutto sui loro idol.
Per quanto il soft power sia uno strumento molto potente – nel cinismo delle relazioni internazionali potrebbe essere definito come “colonialismo culturale” – per molti Paesi a vocazione bellica è difficile bilanciare i due poteri: è cosa risaputa che gli USA non abbiano inviato blue jeans e vhs di Happy Days in Afghanistan.
Ad ogni modo, non sorprenderà il fatto che – forse – per molti di noi sia più facile elencare dieci presidenti americani rispetto a dieci presidenti della Repubblica italiana.