I termini Shoah e Olocausto si sovrappongono in quanto il significato è lo stesso: Shoah proviene dall’ebraico e vuol significare la “tempesta devastante” (dalla Bibbia, Isaia 47 e altri), Olocausto indica, in maniera più comprensibile, il genocidio, messo in atto dalla Germania nazista e dai suoi alleati, lo sterminio, perpetrato dal 1933 al 1945, di tutte le categorie di persone ritenute indesiderabili o inferiori per motivi politici o razziali, tra le quali gli Ebrei dell’Europa.
Ma, oltre agli Ebrei, furono vittime anche le popolazioni slave, delle regioni orientali dell’Europa e dei Balcani occupate dalla Germania, i negri europei, i sovietici prigionieri di guerra, gli oppositori politici, i massoni, le minoranze etniche come i Rom e i Jenisch, i Sinti (appartenenti ad una etnia della più ampia famiglia delle comunità romani dell’Europa), i gruppi religiosi come i Testimoni di Geova e i Pentecostali, gli omosessuali, e i portatori di handicap mentali o fisici.
Tra il 1933 e il 1945, furono dai 15 ai 20 milioni le vittime dell’Olocausto, di entrambi i sessi e di tutte le età, tra cui 4-6 milioni di ebrei (da Il Sole – 24 Ore del 4 marzo 2013 – dati tratti da uno studio dell’Holocaust Memorial Museum di Washington).
La commemorazione del “Giorno della memoria” venne fissata, in data 1° novembre 2005 dalle Nazioni Unite, per il 27 gennaio, giorno coincidente con quello in cui le armate dell’Unione Sovietica, che avevano partecipato alla guerra contro la Germania Nazista e i paesi alleati, entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz, e scoperchiarono il pozzo senza fondo degli orrori perpetrati dal Nazi-Fascismo.
Chi ha vissuto gli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, poco alla volta si è reso conto di quegli orrori, ma a distanza di circa 75 anni dalla fine di quel drammatico conflitto, la memoria potrebbe venire meno, se non ci fosse, unitamente ad altre, questa celebrazione alla quale si dà grande rilievo.
Non è da sottacere che, nonostante i più che accertati e documentati tragici avvenimenti, c’è ancora chi li mette in dubbio; si è calcolato, infatti, che oggi circa il 60% della popolazione non crede che quell’orrore sia accaduto, complice anche una certa classe politica che alimenta tale falsità, cercando di nasconderle con un velo.
Non dimentichiamo che lo stesso Capo di Governo Silvio Berlusconi, ha tentato, talvolta, di minimizzare.
E non dimentichiamo che l’attuale Presidente del Senato, Ignazio La Russa, fascista conclamato, a quella ideologia si è sempre ispirato, conserva gelosamente simboli di quella triste epoca, tra i quali un busto del nostro Duce, si gloria di quei precedenti, ha dichiarato che mai parteciperà alla celebrazione del 25 aprile, giorno della liberazione, e mai si è dissociato dagli orrori ai quali anche noi, schiavi del fascismo, partecipammo: le leggi razziali sono anche una nostra infamia!
E Ignazio La Russa è la seconda carica dello Stato!
E mentre la Germania ha metabolizzato il nazismo, e in quel paese non si parla più di Nazismo e di Hitler, in Italia i simboli del Fascismo e le nostalgie per lo stesso sono sempre più numerose.
Il nobile discorso del nostro Presidente Mattarella ha riabilitato il nostro paese, così come continuamente lo riabilitano personaggi come Liliana Segre la quale è stata ospite di Fabio Fazio nella prima serata di Rai1, partecipando alla trasmissione “Binario 21”, dove, nella sottostazione di Milano, venivano riempiti i carri bestiame di coloro che erano deportati ad Auschwitz, o in altri lager, destinati ai forni crematori o sottoposti a lavori forzati per essere utilizzati fin quando le forze li reggevano, e poi avviati al forni.
Qualche sera precedente era stato messo in onda, su La7, “Il bambino con il pigiama a righe”, un commovente film del 2008, al quale desideriamo ispirarci per celebrare anche noi la giornata della memoria “per non dimenticare” e tramandare ai nostri figli e nipoti quei tristissimi avvenimenti.
“Il bambino con il pigiama a righe” è un film del 2008, prodotto da Stati Uniti d’America, Regno Unito e Ungheria, con attori pressoché sconosciuti, che all’epoca ebbe un buon successo di pubblico, e qualche recensione critica non favorevole, classificato come drammatico e storico, diretto da Mark Herman su soggetto di John Boyne.
E’ un film molto toccante, nel quale c’è l’amicizia al di sopra delle etnie, la violenza insensata contro i diversi, la speranza che il futuro possa appianare diversità e incomprensioni, l’abominio dei comportamenti di efferata crudeltà contro i deboli, la inutilità del male che, alla fine, coinvolge buoni e cattivi senza alcuna distinzione.
E’ la storia della famiglia di un comandante nazista al quale è stata affidata la conduzione di un campo di sterminio.
Il comandante del campo e la sua famiglia, la moglie, la figlia adolescente e l’ultimogenito, si sono trasferiti nel campo, ma solo il capofamiglia è a conoscenza delle disposizioni ricevute: la famiglia non ne sa nulla, ufficialmente sono lì per la rieducazione dei detenuti, a non sospetta nulla anche se avverte nell’aria odori strani, provenienti da una sezione del campo lontana dall’abitazione.
Le propaganda nazista ha fatto sì che tutti considerassero gli ebrei come diavoli, male assoluto, usurpatori di diritti, razza inferiore e cattiva, gente infettiva dalla quale stare lontani.
E’ sulla base di tali insegnamenti che l’adolescente si è formata, ed è proprio lei la più accesa sostenitrice delle colpe degli ebrei.
Gli unici due personaggi che non prendono posizioni rigide sono la moglie del comandante del campo, che crede in ciò che le ha detto il marito, e il piccolo Bruno, il quale, girovagando per il campo, viene in contatto con un coetaneo ebreo, vestito con un una tuta a righe, che chiamano pigiama, di almeno due taglie in più rispetto alla costituzione fisica del piccolo.
La ingenuità dei due bambini porta immediatamente all’amicizia, e quotidianamente si incontrano, ma separati dal filo spinato che divide la parte riservata ai segregati dall’altra.
Pure se divisi dalla rete, i bimbi si scambiano confidenze, giocano a pallone o a dama, e così vanno avanti per un certo tempo.
Ma la moglie del comandante scopre improvvisamente cosa avviene nel campo e qual è la reale incombenza del marito, e il trauma la fa piombare in un abisso di disperazione, e a nulla valgono le giustificazioni del marito che si appella alla sua condizione di soldato abituato ad eseguire gli ordini senza discuterli.
Alla frattura insanabile tra marito e moglie fa da contraltare il rinsaldarsi dell’amicizia tra i due bambini e, nonostante il piccolo ebreo abbia subito una punizione dall’attendente del comandante, non viene meno.
Ma quando la moglie del comandante decide di andare via dal campo, portando con se i due figli, Bruno decide di visitare, prima di partire, l’altra parte del campo, scava una buca sotto la rete, si avventura nella parte riservata agli internati, l’amichetto ebreo Shmuel lo fa spogliare degli abiti e lo riveste con un pigiama a righe come il suo per mimetizzarlo, e i due si incamminano nel campo alla ricerca del padre di Shmuel proprio nel momento in cui una fila di internati vengono condotti verso le camere a gas: i due bambini, mimetizzati con il pigiama a righe, vengono incolonnati insieme a tutti gli altri, condotti nelle camere a gas, e poi ai forni crematori.
A nulla valgono le ricerche che i genitori e la sorellina di Bruno fanno, che scoprono l’accaduto solo quando trovano, accanto al filo spinato, gli indumenti del piccolo.
E a nulla vale la corsa del padre, con la speranza di arrivare in tempo per sottrarre il figlio all’olocausto.
Storia molto toccante e di grande impatto emotivo.
Con la ovvia conclusione che l’olocausto può coinvolgere anche chi ad esso non è destinato, il destino è imprevedibile.
Ma tutti i discorsi, le commemorazioni, i libri scritti da chi è scampato al massacro, le foto e i filati non sono sufficienti a comprendere quegli orrori.
Meglio è, per le giovani generazioni e per i negazionisti, recarsi in pellegrinaggio nei campi di sterminio, vedere le migliaia di occhiali tolti ai morituri, le scarpe, le valigie, i capelli, tutti conservati in enormi teche; percorrere i viali che portano alle numerose capanne all’interno delle quali si possono vedere dove e come dormivano i detenuti, privati di tutto, anche dei servizi igienici, senza riscaldamento se non quello dei grandi bidoni metallici che gli stessi detenuti mettevano in funzione bruciando legna che avevano raccolta durante le giornata.
Vedere dal vivo per credere!
All’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz in Polonia ancora è conservata la iscrizione in ferro “Arbeit macht frei – il lavoro rende liberi”, rubata qualche tempo fa per vandalismo o profanazione, poi ritrovata.
Una grande ipocrisia, non è questa la libertà!