Nell’antica Roma esistevano per gli schiavi pene più crudeli della crocefissione?
E’ noto che nell’antica Roma gli schiavi ribelli venivano condannati alla pena della crocifissione, e si ha la convinzione che la morte sulla croce fosse il supplizio più crudele che potesse essere inflitto ad un essere umano.
Il rituale di questo supplizio è ormai ben noto dall’antichità, ma specialmente nell’ultimo secolo la filmografia ce lo ha fatto conoscere sotto tutti gli aspetti, dal film “Spartacus”, di Stanley Kubrick del 1960, ai vari film di celebri registi, fino a quello considerato il più crudele, “La passione di Cristo”, diretto nel 2004 da Mel Gibson, che consideriamo il più realista.
Ma sembra che ci fossero altre pene ben più crudeli alle quali gli schiavi, ribelli o disattenti, potevano essere condannati dai loro padroni, contro le quali quasi nessuno poteva opporsi, giacché lo schiavo, in quell’epoca, era considerato una proprietà del padrone il quale poteva farne ciò che voleva.
Prendiamo ad esempio un tale Publio Vedio Pollione, cavaliere romano originario di Benevento, del quale si conosce solo la data di morte (15 a.C.), il quale aveva la sadica abitudine di dare i suoi schiavi, colpevoli a suo dire di aver fatto qualche mancanza, in pasto alle murene.
Questo era il pesce che il sadico Pollione allevava per proprio diletto nella villa che si era fatta erigere a Napoli, in splendida posizione sul promontorio di Posillipo, chiamata “Pausilypon”, termine greco che sta per “sollievo dal dolore”, evidentemente non quello degli altri.
Pollione, era un “liberto” (ex schiavo reso libero per meriti o per riscatto), e con il suo saper fare era entrato nelle grazie dell’Imperatore Cesare Augusto, del quale era grande amico sin dai tempi in cui lo aveva sostenuto in occasione della battaglia di Azio nella quale il futuro Imperatore aveva sconfitto il rivale Marco Antonio e Cleopatra.
Cesare Augusto non lo avrebbe dimenticato e, quando divenne Imperatore, lo gratificò parecchio, e i loro rapporti divennero molto stretti, tant’è che Pollione, in onore di Augusto, nella sua citta natia di Benevento fece erigere un “Cesarèo”, tempio eretto in onore dell’Imperatore, al quale destinò, alla sua morte, anche la villa partenopea.
Plinio il vecchio, scrittore e storico latino, spiega che lo spietato sadismo di Pollione di utilizzare le murene non derivava dalla impossibilità di scegliere una pena meno crudele (come quella di far sbranare gli schiavi da una belva feroce), ma dalla circostanza che l’utilizzo delle murene gli consentiva di godersi lo spettacolo da vicino, giacché questi pesci erano tenuti in piscine dai bordi delle quali si poteva assistere al macabro spettacolo.
Eppure Pollione sapeva cosa significasse essere schiavo, visto che discendeva da una famiglia di liberti arricchiti, originaria di Benevento. Ma preferì dimenticare la sua origine perché diventò uno degli uomini più ricchi della tarda epoca repubblicana, e arrivò a far parte degli “equites”, prestigioso ordine equestre al tempo di Augusto al quale si poteva accedere per censo, in particolare per ricchezza e beni posseduti.
Augusto aveva tanta stima dell’amico da affidargli, tra il 27 e il 25 a.C, un importante incarico nella provincia dell’Asia, una delle più ricche dell’impero: Pollione doveva occuparsi della riorganizzazione economica della stessa, e forse venne nominato addirittura proconsole (incarico che normalmente veniva affidato a un senatore), e quella trasferta fece crescere non di poco il suo patrimonio.
Ovviamente la brillante carriera di Pollione suscitò non poche invidie, lo stesso Cicerone ne aveva parlato male già nel 50 a.C. in una lettera all’amico Attico.
Pollione non faceva nulla per attirarsi la simpatia dei patrizi romani, anzi era ad essi inviso perché il suo modo di agire particolarmente odioso; in una occasione aveva incontrato proprio Cicerone facendosi accompagnare da un babbuino, seduto al suo fianco, e da un certo numero di asini e di schiavi: una metafora per classificare Cicerone, scherzi che a quel tempo, se non fosse stato amico dell’Imperatore, sarebbero costati parecchio, non esclusa la vita.
Pollione certamente suscitava antipatia anche per la esibizione delle sua ricchezze e del lusso nel quale viveva, specialmente nella tenuta di “Pausilypon”, dove non si faceva mancare nulla: c’era un complesso termale, un “odeion” (edificio utilizzato per spettacoli di canto e musica e competizioni) per i pochi intimi, un anfiteatro da 2000 posti per spettacoli più in grande, e un “ninfeo” (luogo delle acque) corredato di vasche, dove venivano allevate le murene; in tutta la villa correvano le condutture dell’acquedotto, inequivocabile segno di opulenza.
Publio Ovidio Nasone, altro poeta e storico romano dell’epoca, descrisse quella villa come una città, nella quale Pollione ospitava ospiti di eccezione, ai quali non aveva timore di mostrare la sua crudeltà verso gli schiavi, cosa anche allora disdicevole, ma non perseguibile per legge.
E Pollione esagerava anche di fronte ad Augusto, tanto che, secondo un racconto di Seneca (altro Filosofo e scrittore latino), in occasione di un banchetto dove l’Imperatore era l’ospite d’onore, accade che un servo fece cadere un calice di pregiato cristallo mandando in bestia Pollione, che subito condannò lo sventurato ad essere dato in pasto alle murene.
Ma lo schiavo riuscì a divincolarsi dalla presa di chi lo tratteneva e raggiunse i piedi di Augusto, chiedendogli non la grazia, ma almeno una morte meno orrida, e Augusto, impietosito dalle preghiere dello schiavo, cercò di persuadere Pollione a perdonarlo.
Siccome Pollione non gli dava ascolto, Augusto chiese di portare tutti i calici simili a quello rotto e anche altre coppe preziose e ordinò di romperli tutti.
Pollione ebbe pure una ramanzina da Cerare Augusto: “Perché si è rotto il tuo calice, debbono essere sbranate le viscere di un uomo? Sei tanto compiaciuto di te stesso da pronunciare una condanna a morte, là dove è presente il tuo Imperatore?”
Ovviamente Pollione in un primo momento si sdegnò, ma, non poteva certo venir meno ad un ordine dell’Imperatore e fu costretto a fare buone viso a cattivo gioco.
Questo ci consente di fare una considerazione; se è vero che nella realtà romana dell’epoca non esistevano leggi a tutela degli schiavi, è altrettanto vero che qualche voce si levava a loro favore.
Seneca, infatti, sempre a proposito di Pollione, nel “De Clementia” scrive: “Mentre tutto è lecito nei confronti di uno schiavo, c’è qualcosa che il diritto comune a tutti gli esseri animati non permette di autorizzare nei confronti di un uomo. Chi non odiava Vedio Pollione più dei suoi schiavi, perché egli ingrassava le sue murene con sangue umano e faceva gettare quelli che lo avevano offeso in qualche modo in un vivaio di serpenti?”.
E lo stesso Augusto non poté più fare finta di niente, Pollione era divenuto ormai un’amicizia scomoda, e occorreva prenderne le distanze. Le ricchezze di quell’uomo erano eccessive e forse di origine non lecita, ed egli, anche come Imperatore, nemico dei lussi che si ergeva a moralizzatore dei costumi, non poteva più far finta di ignorarlo.
Così Cesare Augusto rallentò la frequentazione di Pollione, il quale, ciononostante, gli rimase sempre fedele tant’è che alla sua morte, nel 15 a.C., lasciò i suoi beni in eredità ad Augusto, a patto che venisse costruita una tomba monumentale in suo onore.
Ma l’Imperatore non poté accettare perché molti gli rinfacciavano quell’amicizia, e così non solo non fece erigere un mausoleo per l’amico, ma addirittura fece abbattere la magnifica villa che Pollione possedeva sul colle Esquilino e al suo posto venne costruito il “Portico di Livia”, dedicato a sua moglie.