La parola “trattativa” introdotta in un processo di mafia in cui sono stati coinvolti uomini dello Stato non poteva non essere suggestiva sebbene non sia riscontrabile nel codice penale come reato da sanzionare.
Ha avuto successo mediatico e resiste ancora nel linguaggio di alcuni operatori dell’informazione giornalistica nonostante la Corte di Assise di Appello di Palermo nel processo denominato “Trattativa Stato-Mafia” non abbia configurato alcun dolo nei comportamenti di tre Ufficiali dei Carabinieri, né responsabilità a carico di un ex Senatore della Repubblica.
Le relative indagini condotte dalla Procura di Palermo a seguito di rivelazioni di un “papello” dell’ala stragista di “Cosa Nostra”, fatto recapitare ai ROS tramite l’ex Sindaco di Palermo Vito Ciancimino, sono state fonti di apprensioni etiche e di supposizioni complottistiche, su cui per oltre un decennio sono state costruite verità mediatiche e delegittimazioni politiche nella rappresentazione delle vicende che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.
In esso i corleonesi di Totò Riina chiedevano agevolazioni ed attenuazioni del regime carcerario riservato ai mafiosi in cambio di una desistenza terroristica che in quella stagione aveva fatto registrare le stragi di Capaci e di Via D’Amelio e successivamente una sequenza di attentati a Roma, Milano e Firenze: un vero e proprio ricatto configurabile in violenza a corpo politico dello Stato.
Come dire una sorta di “do ut des” che si sarebbe dovuto tradurre in “trattativa” se dietro l’opera di intelligence dei Carabinieri ci fossero state promesse di favori che si sarebbero potuto concretizzare con atti legislativi.
Sul punto si capisce il “fumus” che ha indotto la Procura di Palermo ad attivare le indagini e si comprende la “ratio” della sentenza di assoluzione degli ex Ufficiali dei Carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe Di Donno, perché l fatto non costituisce reato, ritenendo i contatti da loro tenuti mirati all’assunzione di informazioni per la cattura dei padrini dei corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Le motivazioni ne daranno un’articolata chiave di lettura, anche per la parte che riguarda il ruolo dell’ex Senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, assolto per non aver commesso il fatto, accusato quale neo referente politico per le concessioni dei favori richiesti e che non si sono avverati. Di fatto sarebbero potuto passare attraverso un atto legislativo ed è questo uno degli aspetti più inquietanti dell’uso della parola “trattativa”. Perché, debordante rispetto alla fisiologica dinamica del processo penale, ha finito con inchiodare nell’immaginario collettivo la credenza che la mafia possa contrattare compiacenze non tanto da uomini di Governo ma finanche nelle attività legislative.
Ed inquieta di più l’ampiezza dei clamori suscitati dalla magia di una parola azzeccata sia sul piano delle reazioni politiche che mediatiche, rispetto alle carenze, omissioni o devianze investigative sulle uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, nelle cui carte non lette ci potrebbe essere la chiave della stagione delle stragi.
É legittimo sospettare che il mancato ritrovamento della “agenda rossa” di Paolo Borsellino possa costituire uno strumento di ricatto o di condizionamento di verità da parte di chi ne è in possesso.
La narrazione mediatica tra verità storica e/o giudiziaria raccontata sulla trattativa secondo convenienze di appartenenza politica o di testata non aiuta a diradare le nebbie, soddisfa gli schieramenti partitici ed editoriali, ed alimenta diffidenza verso le istituzioni democratiche dello Stato, al di là degli uomini che ne assumono il Governo pro tempore.