La mafia, storicamente, non ha mai preso ordini da altre entità, ma ha avuto, sempre, attenzione nei confronti dei loro apparati, inquinandoli o, all’occorrenza, ingaggiandone il personale.
Nei suoi modi di agire non si riscontrano forme di deleghe, semmai di condivisioni di interessi con altri poteri.
Il contesto grigio si può dire che sia stata ed è una piattaforma di relazioni con altri mondi: dalla politica alle professioni, dall’economia alla finanza, dalle amministrazioni pubbliche all’esercizio di influenze per la divulgazione di informazioni. Con il dovuto discernimento le cosche di “cosa nostra” hanno gestito e governato, con violenza o con consociazione, utilità ed ostilità.
Appalti, speculazioni urbanistiche, traffici internazionali di droghe, accumuli e movimenti di capitali sono stati all’origine della prima e seconda guerra di mafia nella città di Palermo degli anni sessanta ed ottanta. Ad esse hanno fatto seguito uccisioni di amministratori locali, politici, uomini della Polizia e dei Carabinieri, magistrati impegnati a sollevare veli ed a scardinare compromissioni.
Le stragi di Capaci e di Via D’Amelio sono stati i punti più alti della sfida contro gli uomini garanti dei poteri della legalità e, nel contempo, sono stati anche rivelatori di inquietanti devianze in ranghi di apparati dello Stato.
Ce n’è ampia documentazione negli atti processuali relativi ai depistaggi di indagini concernenti entrambe le stragi. Alle ore 17.56 e 48 secondi del 23 Maggio del 1992 l’esplosione di oltre seicento chili di tritolo ha sconquassato un tratto dell’Autostrada Punta Rasi/Palermo.
Nell’inferno apertosi all’altezza di Capaci hanno perso la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, Francesca Morvillo,, e gli agenti di Polizia Vito Schifani, Rocco Di Cillo ed Antonino Montinaro. Opera attribuita a “cosa nostra” (l’innesco fu azionato dal boss Giovani Brusca) ma con il concorso di “menti raffinate” così come Falcone stesso aveva commentato il fallito attentato tesogli all’Addaura il 21 giugno del 1989.
Allora, alle rituali solidarietà di facciata ha fatto seguito anche una campagna denigratoria nei suoi confronti fino ad adombrare un’ipotesi di auto attentato. Classico paradigma della cultura mafiosa per discreditare ed isolare le persone di altri poteri scomode per gli interessi delle cosche.
Delle scorrettezze e maldicenze circolanti nei Palazzi sia della Giustizia che della Politica, riportate dai media, rispetto al suo lavoro si hanno tracce nelle sue audizioni in sede di CSM. Ne aveva manifestato doglianza in una lettera (26 luglio 1988) allo stesso organo di governo della magistratura che gli aveva negato la guida per l’Ufficio Istruzioni di Palermo ed, in epoca successiva, la Direzione Nazionale Antimafia, di cui era stato padre putativo.
Spirito di indipendenza dalle “cordate”, Giovanni Falcone è stato contestato anche dall’intellettualismo politicante della sinistra per il suo impegno presso il Ministero della Giustizia, retto dal socialista Claudio Martelli.
Due giorni dopo la strage sul quotidiano l’Unita’, Piero Sansonetti, oggi Direttore de “il Riformista, manifestando onestà intellettuale, ammetteva: “siamo stati faziosi” perché “abbiamo fatto prevalere il dubbio politico” non avendogli riconosciuto “capacità di comprensione teorica del fenomeno mafioso, per conoscenza giudiziaria e per carisma”.
“Abborriva i dilettanti dell’antimafia” come si legge nella presentazione scritta da Claudio Martelli per “L’Albero Falcone”, raccolta di pensieri e di auspici. Fra i tanti, emblematico del sentire popolare: “Ti hanno chiuso gli occhi per sempre, ma Tu li hai spalancati ai palermitani”.
Ma, occhio ai cavalli di Troia di “cosa nostra” che spesso si manifesta con il volto pulito del professionismo dell’antimafia, di cui le cronache giudiziarie correnti continuano a dare testimonianze.